sabato 31 dicembre 2011

Un augurio "vintage"

Quando andavo alle medie mi divertivo a scrivere poesiole e filastrocche che tenevo gelosamente costudite (non le avrei mai fatte leggere a nessuno, mi vergognavo!) nel diario segreto, (avete presente quelli col lucchetto? ma li fanno ancora?). Per anni le ho dimenticate, chiuse in una scatola in cima all'armadio. Ma qualche giorno fa, facendo un po' di ordine, ho ritrovato intatti tutti i miei ricordi: le lettere che scrivevo agli amici e le cose tenere che confidavo al diario. E c'è una filastrocca, che ho scritto il 29 Dicembre 1991, che voglio condividere con voi, come augurio per l'anno che verrà. Di solito ci si sente sempre augurare tanta felicità o serenità. Io invece vi auguro (e mi auguro) un po' di leggerezza, che non è molto, ma sarebbe già un bel modo di iniziare l'anno! Direttamente dalla Michela dodicenne, che alla fine non è cambiata poi molto negli ultimi 20 anni, buon 2012!

La Ricetta della Leggerezza

Un goccio di Champagne con tante bollicine
il volo spensierato di celesti farfalline
una bella piroetta che far girar la testa
la gioia nell'aria di un giorno di festa;
un tenero abbraccio leggero e delicato
il battito veloce di un cuore innamorato
la polvere di luce di centoventi stelle
una grossa manciata di risate a crepapelle.
La testa su una nuvola poi devi appoggiare
e dal suono dei violini lasciarti cullare.
Bevi la pozione d'un fiato per davvero,
chiudi bene gli occhi e ti sentirai leggero!

venerdì 30 dicembre 2011

Si vive una volta sola e qualcuno neppure una

"Che poi basterebbe avere una specie di autolimitatore di pensieri per stare meglio. Una specie di autolimitatore di sentimenti. Basterebbe non lasciarsi andare proprio a picco nella vita di un'altra persona, no?"
(Andrea De Carlo, "Di noi tre", 1997)

Bè, sì, basterebbe. Ma, personalmente, non sopporto chi prova a farlo. Autolimitarsi nei sentimenti vuol dire vivere a metà, vuol dire mangiare un piatto di pasta senza il sugo, addentare un cono senza il gelato e la panna montata, andare al mare e non tuffarsi in acqua, non essere mai saliti su un otto volante per paura di cadere. Potrei continuare all'infinito con le similitudini, ma il concetto è chiaro: i sentimenti, sono loro che danno sapore alla vita! Purtroppo, spesso, sono anche quelli che la fanno apparire brutta, difficile e invivibile.
Sento spesso dire "non prendo un cane perché poi, quando muore, sto male". Sapessero, quelle persone, cosa si perdono a non aver avuto un cane che abbia tenuto loro compagnia per una parte della vita! E quelle persone, di solito, fanno la stessa cosa coi loro simili: amano a metà, col freno a mano tirato. Avendo paura di mettere un piede in fallo ad ogni passo, preferiscono stare fermi o battersi in ritirata appena vedono un minimo pericolo all'orizzonte. 
Lasciarsi andare a picco nella vita di un'altra persona, invece, significa prendere un bel respiro, tuffarsi e chiudere gli occhi. Dopodiché rimanere in attesa e in balìa delle onde. Non potrei pensare a un modo diverso da questo di voler bene a qualcuno.
E infatti ho inseguito le volate del cuore ovunque esso andasse, e non mi sono autolimitata in niente. Le rare volte che ci ho provato, ho scoperto che si fa solo finta, che non ci si riesce davvero. Che il mentire a se stessi è pericoloso, perché si rischia di non sapere più cosa vogliamo e di rimanere intrappolati nella maschera che ci costruiamo, a tal punto da non riconoscere più dove finisce il travestimento e dove inizia la persona autentica che ne sta sotto.
Vivere pienamente, sempre, ogni sentimento, compensa ogni pianto e ogni momento difficile. Ne "La spada nella roccia" (cartone animato Disney del 1963) Merlino canta "per ogni giù c'è sempre un su, per ogni men c'è sempre un più e questo il mondo fa girar!". Affrontare a testa alta il meno, sperando nel più, e quando arriva riconoscerlo e goderselo: è questa la vita.
Limitarsi nei sentimenti, costruendosi barricate entro cui ripararsi, aver talmente paura di star male da star male proprio perché si ha paura, è sempre stato, per dirla con Rolo Dìez, "il castigo dei mediocri".

P.S. La citazione che dà il titolo a questo post è di Woody Allen.

giovedì 29 dicembre 2011

Volevo solo una granita

Come avrete capito, la mia vita è come stare su una montagna russa perenne: giorni in salita, dove tutto sembra impossibile da raggiungere e diventa difficile perfino alzarsi dal letto e giorni in discesa, dove il divertimento, le risate, le cose belle prendono il sopravvento. Più o meno è così per tutti, in effetti, ma per me le salite e le discese sono più ripide e più frequenti, perché fra i tanti problemi che mi porta il diabete, c'è anche quello, per niente simpatico, degli sbalzi d'umore. La scienza non ha ancora ben capito perché, ma pare che i diabetici soffrano di sbalzi d'umore anche violenti. Facendo un giro su alcuni forum e siti dedicati a questa malattia, ho letto storie di mariti che di punto in bianco cominciano a tirare piatti alle mogli, scene isteriche nate da un nonnulla, urli e strepiti. Nel mio caso, quando ho uno sbalzo d'umore, mi sveglio la mattina con la perenne voglia di piangere, mi innervosisco per motivi anche banali e ogni tre per due mi scendono i lacrimoni.
Questa è una malattia di cui tutti in realtà hanno sentito parlare, ma che purtroppo non conoscono affatto. La maggior parte della gente è convinta che basti non mangiare i dolci e sei a posto. Il peggio che ti può capitare è che devi farti un paio di iniezioni di insulina al giorno. Ecchesarammai!
La realtà è ben diversa. Quando scopri di essere diabetico, vieni di punto in bianco catapultato in un mondo in cui ti si aprono porte che fino ad allora non avevi mai visto. Ti viene data una dieta che devi seguire con attenzione e che, ti viene detto fin da subito, durerà tutta la vita. La tua intera esistenza deve comunque ruotare intorno a questa malattia, perché tu puoi fregartene, puoi tentare di ignorarla, ma lei poi ti presenta il conto tutto insieme e di solito è un conto molto salato.
Provate ad immaginare la vostra vita: uscite, andate in giro con gli amici, prendete un apertivo? Dimenticatevelo. Nella maggior parte dei casi le bevande con cui vengono fatti gli aperitivi, contengono sciroppo di glucosio, ovvero il veleno per un diabetico. Siete in giro, in estate, e avete voglia di una granita? Niente da fare. Stessa cosa vale per i gelati, a meno che non troviate una pia gelateria che ha pensato anche a voi e si è degnata di fare almeno un gusto senza zucchero. Che però, attenzione, contiene lattosio. E il lattosio è uno zucchero. E bisogna starci attenti.
E fin qui ho parlato solo di dolci. Il problema è che lo zucchero è presente, in diverse forme, in quasi tutti gli alimenti. Quante volte, leggendo una rivista, avete letto "per tenersi in forma, frutta a volontà!". Ebbene, per un diabetico, non esiste la "frutta a volontà", perché contiene, indovinate un po'? Il fruttosio.
Chiunque soffra di questa malattia, deve imparare a fare i conti con "l'Indice glicemico degli alimenti" e deve imparare a pesarsi tutto, dal pane alla pasta, dalla carne alla frutta. Deve imparare a guardare gli ingredienti su ogni confezione ai supermercati. Perché nella maionese, nel ketchup e nella senape, ad esempio, c'è lo zucchero. Anzi, a dirla tutta, lo zucchero è presente in quasi tutti gli alimenti preconfezionati. L'altro giorno ho fatto un calcolo e ho scoperto che, per un diabetico, mangiarsi quattro cipolline sott'olio equivale a ingurgitare due hg di pasta. Avete presente quando andate nei ristorantini e vi portano quegli antipastini fatti coi crostini? Nel patè, c'è lo zucchero. Un succo di frutta in un bar? Scordatevelo, non solo c'è il fruttosio, ma ci viene aggiunto lo zucchero semplice (che fra l'altro, è quello peggiore).
Potrei andare avanti all'infinito. Ma mi sembra che ormai sia chiaro quello che intendo: è una malattia che limita fortemente la libertà indivuduale.
Vogliamo parlare delle iniezioni di insulina o di altri farmaci sostitutivi? Parliamone. Ogni giorno, due o tre volte, dovete bucarvi la pelle per l'autocontrollo della glicemia e anche per praticarvi le iniezioni. Non è doloroso. Sono gli effetti collaterali dopo che sono insopportabili, certe volte.
A parte il fatto che, ovunque voi siate, dovete trovare un luogo decente e pulito per praticarvi l'iniezione e che dovete conservare a temperature ben precise le penne preriempite (e quindi, un viaggio nel deserto del Sahara diventa complicato), ci sono medicinali che provocano la sensazione di nausea perenne, vomito, mal di testa e diarrea. Molti malati, poi, arrivati ad un certo punto della malattia, sono costretti a ricorrere ai microinfusori, perché il controllo metabolico non è realizzabile solo con le tre iniezioni giornaliere: si tratta di macchinette che vanno sempre tenute attaccate addosso, con l'ago sempre inserito, e che iniettano l'insulina ogni qual volta il paziente ne abbia la necessità.
Divertente, no?
Non voglio parlare adesso di tutte la varie complicanze cui va incontro ogni malato che non curi questa malattia nel modo corretto. Vi dico solo che, quattro mesi fa circa, ad un controllo, un medico particolarmente impietoso mi ha detto "Devi fare qualcosa di drastico per entrare in compensazione metabolica oppure tu a 50 anni non ci arrivi". Il "qualcosa di drastico" è arrivato sotto forma di due iniezioni al giorno di un farmaco che si chiama Byetta e che mi fa vedere i sorci verdi. Quando lo prendo, comincio a star male per ore. Appena comincio a sentirmi meglio è già ora di farsi la seconda puntura.
Eppure non ho fatto nulla per meritarmi questo. Lo so che dovrei pensare alle persone, tante, che stanno peggio. Ma perché non si deve mai guardare chi sta meglio? Che senso ha sentirsi sollevati dal pensiero che "c'è chi sta peggio di te"? Come se dovessi essere contenta che la gente abbia un tumore o come se, per il solo fatto che mi è venuto il diabete, non fossi comunque a rischio di sviluppare anch'io un tumore. Io so che fin da bambina non mi sono strafogata di dolci, che non ho mai mangiato troppo, che sono sempre stata in sovrappeso e a dieta perché avevo un problema metabolico che molti dottori non sono stati in grado di riconoscere e affrontare. E che dopo tante rinunce e tante umiliazioni ( "di' la verità? tu mangi la notte, vero? ma sei così bellina, che te ne frega di stare a dieta? con quel visino lì gli spasimanti ce li hai lo stesso!") mi sono ritrovata pure malata a 26 anni.
Ecco, ci sono dei giorni che non riesco ad accettarlo e non riesco ad abituarmi al pensiero che questa sarà la mia vita per i prossimi anni. Per sempre. O almeno finché la scienza non abbia trovato un rimedio. Ma si sa cosa successe a chi visse sperando.

mercoledì 28 dicembre 2011

Ricordi in agrodolce

Ultimamente mi è presa una specie di nostalgia: vorrei tornare a cantare. Per dieci anni ho cantato in un coro (dal 1992 al 2002), e non in un qualsiasi coretto parrocchiale, bensì nella Cappella Musicale della Cattedrale di Pisa. Ma non fatevi impressionare dal nome altisonante: eravamo comunque tutti dilettanti.
Quando entrai a far parte della sezione femminile avevo 13 anni, andavo a lezione di pianoforte e il mio Maestro era anche il Direttore del suddetto coro, per cui il mio ingresso fu facilitato. Ero la più piccolina là dentro e trovai un ambiente accogliente. Tutti mi coccolavano e mi vezzeggiavano.
Io, che fino ad allora avevo cantato giusto sotto la doccia le canzoni di Cristina D'Avena prima e di Marco Masini poi, mi ritrovai di punto in bianco a cantare cose come "Sicut Cervus" di Giovanni Pierluigi da Palestrina, la "Messa dell'Incoronazione" e il "Requiem" di Mozart, l' "Hallelujah" di Händel e così via...
Il clima era rilassato, ci impegnavamo moltissimo, facevamo anche tre prove a settimana, in una stanzina scalcinata all'ombra della Torre Pendente, e i risultati si sentivano durante i concerti e le Messe in Cattedrale.
Mi divertivo molto, mi sentivo a mio agio, mi ero fatta delle amicizie (altre ragazzine della mia età o poco più grandi erano entrate a far parte del coro dopo di me) e l'entusiasmo era l'unico motore che ci spingeva a cercare di fare sempre meglio.
Siccome eravamo bravini, l'ente che si occupava di gestire le finanze del coro, l'"Opera Primaziale Pisana", acconsentì di finanziarci alcune tournée e concorsi in Italia e all'estero. Nel 1995 andammo un settimana in Inghilterra, nel '96 e nel '98 in Germania e nel 2000 a Parigi, partecipando nel frattempo anche a diversi concorsi (Carpi, Verona, Vittorio Veneto).
Come tutte le belle cose, però, anche questa era destinata a finire.
L'ingresso nel coro di alcuni elementi negativi portò pian piano a trasformare quell'entusiasmo di cui parlavo prima in una sete di successo. Non cantavamo più tutti insieme, ma eravamo sempre in una specie di competizione l'uno contro l'altro. L'imperativo nei concorsi era "dobbiamo vincere"; l divertimento non c'era più, c'era solo l'obbligo di cantare e di cantare bene, perché dovevamo per forza essere sempre i migliori.
Pian piano molte delle mie amicizie se ne sono andate e alla fine anch'io ho preferito mollare. Il coro esiste ancora, ma all'interno c'è stata una specie di rivoluzione e adesso la maggior parte dei cantori ha studiato canto o è addirittura diplomata.
Per molto tempo ho rifiutato l'idea di ricominciare a cantare, dovevo come disintossicarmi. Ma qualche giorno fa mi è capitato tra le mani un vecchio cd, una registrazione live di un concerto che facemmo nel 1995. E non so come, mi son messa a cantare come se non fose passato nemmeno un giorno. Come sempre, il tempo attutisce tutto, e anche i brutti ricordi (che comunque rimangono) hanno lasciato il posto ad una piccola nostalgia, che ogni tanto percepisco come una punturina di una minuscola spilla.

martedì 27 dicembre 2011

Sorelle di Taglia

Ed è passato anche Natale...
Ogni anno siamo sempre come in attesa di qualcosa che poi non arriva mai. Non so se a voi succede lo stesso, ma a me dà sempre l'impressione di essermi persa qualcosa. Una aspetta aspetta aspetta e poi, sul più bello, si addormenta e si sveglia quando ormai è tutto finito. E ti rimane quella sensazione di insoddisfazione latente che ti scatena il malumore perenne. Infatti, dopo Natale, se ci fate caso, sono tutti più nervosi e pronti al litigio. E c'è un aumento dei suicidi.
Nel mio caso, ciò che mi salva dall'autolesionismo e dall'incazzatura è il pensiero che fra poco inizieranno i SALDI DI FINE STAGIONE. Mi preparo psicologicamente già da un mese al fatto che il 7 gennaio partirò fin dalla mattina per raggiungere il Villaggio Outlet di Barberino del Mugello (Firenze), che per me è come andare nel paese dei balocchi. L'unica cosa che mi esalta allo stesso modo è andare nei parchi a tema, tipo Disneyland. Bambina nei parchi a tema, material girl negli outlet. E con questo, ho descritto due fra le cose che sono il massimo del divertimento secondo il Michela-pensiero. I musei... che noia! Viaggiare? Sì, bello, ma deve esserci almeno un piccolo e caratteristico negozietto!
Ecco, ora scatterà l'accusa di superficialità. Ma signori miei, sto parlando di divertimento allo stato puro! So che è giusto visitare i musei e le Chiese, andare a vedere le città d'arte e, con la puzza sotto il naso, ammirare un'opera di Michelangelo in preda alla sindrome di Stendhal. Ma la differenza è un po' la stessa di quando leggevo Proust, studentella e snobbina, per darmi un tono, e poi però sotto il cuscino (e nel cuore!) tenevo "I love shopping".
Stamattina ho fatto un sopralluogo in alcuni negozi che potrebbero interessarmi e, a parte il fatto che molti hanno già iniziato a fare sconti e vendite promozionali, devo dire che quest'anno, complice la crisi, gli scaffali sono ancora tutti ben forniti. Qualsiasi maniaca dello shopping sa che, durante i saldi, il vero e unico problema è che la scelta dei modelli si riduce al minimo. Ogni medaglia però ha il suo rovescio: il fatto che ci sia ancora così tanta scelta, induce le donne a prepararsi ai pomeriggi di shopping come se dovessero andare in guerra. Perché si sa che le taglie che ci interessano sono sempre quelle che finiscono per prime e allora bisogna prepararsi alla lotta, anche se andiamo con le amiche o con le sorelle. In quel momento siamo solo tante piccole Rambo in gonnella e tacchi a spillo (o nel mio caso Jeans e ballerine, che è meglio essere comode in battaglia), pronte a dare la vita (ma soprattutto a toglierla alle altre donne) per una borsa o una camicetta a metà prezzo!
E allora, strimgiamci a coorte, siam pronte alla morte, lo shopping chiamò!

lunedì 26 dicembre 2011

Preparando lo zainetto per il 2012

Ci avviciniamo a grandi passi verso la fine di questo 2011 e, come si sente dire spesso, questa dovrebbe essere l'occasione in cui buttiamo tutte le cose che non vanno per cominciare il nuovo anno senza zavorre che ci complicano la vita.
Stavolta però voglio fare l'esercizio contrario; voglio cioè scegliere solo le cose da portarmi dietro, non quelle da buttare. Lo so che, in teoria, non cambia molto, ma mi aiuta a vedere le cose in positivo e soprattutto a fregarmene della fine che farà tutto ciò che lascerò.
Prima di tutto sono costretta a portarmi dietro una cosa che lascerei: il diabete. Quello ormai è parte di me e non se ne andrà più, quindi è bene che cominci a fare amicizia con questa malattia, altrimenti la nostra potrebbe essere una convivenza da incubo. E siccome in questi quattro anni (da quando l'ho scoperta) ho tentato più volte di ignorarla senza ottenere grandi risultati, ho deciso di conoscerla un po' meglio e di accettarla.
In secondo luogo, metto nello zainetto una bella dose di pazienza, che mi sarà utile, visti anche gli innumerevoli sbalzi d'umore cui sono sottoposta.
Per terza cosa, voglio portarmi dietro la persona che ero qualche anno fa, e mollare quella che sono diventata negli ultimi due anni. Siccome quella che ero sapeva bene quel che voleva e quella che sono arranca nel buio, direi che per andare avanti ho bisogno di una guida un po' sicura. Per aiutarla, metterò nello zainetto anche una bella torcia, per accendere una luce decisa e forte, in modo che non ci siano più zone d'ombra nella mia vita. Perché è proprio in quelle zone d'ombra che si annidano le cose che mi fanno più male.
La speranza, quella è d'obbligo portasela dietro, perché, essendo l'ultima a morire, finché c'è lei so di non essere poi così in pericolo.
E poi che altro? La biancheria di ricambio ce l'ho, lo shampoo e il bagnoschiuma anche, l'ironia, grazie al cielo, non l'ho mai persa, un sorriso, anche stanco, me lo tengo sempre in tasca come una caramellina (e casomai lo ravviverò con un po' di rossetto); la mia parte fanciulla (che comprende anche la Bimba Cattiva&Dispettosa che ogni tanto esce fuori) è ben protetta nel pluribol, perché essendo delicata non vorrei che si rompesse. Devo ricordarmi un paio di scarpe col tacco, che quelle servono anche a schiacciare la testa a qualche serpentello insidioso, e i fazzoletti perché tanto mi conosco, ho la lacrima facile; un quaderno e una penna per tornare a scrivere come ai vecchi tempi ed alimentare la mia parte nostalgica, un bouquet di matite colorate per ravvivare i giorni grigiastri e uggiosi, e qualche cd perché non si viaggia mai senza musica...
Sono pronta a partire, direi. Chiudo lo zaino e via! Tutto ciò che lascio, lo prenderà qualcun'altra e buona fortuna!

domenica 25 dicembre 2011

Gli auguri rubati a Gianni Rodari!

Rubo a Gianni Rodari (scrittore, giornalista, pedagogista del '900, famoso per aver scritto fìilastrocche e poesie dedicate ai bambini e per aver scritto la "grammatica della Fantasia", un vero e proprio trattato sull'arte di inventare storie) gli auguri che voglio rivolgere a tutti voi.
Buon Natale!

Se comandasse lo zampognaro
Che scende per il viale,
sai che cosa direbbe
il giorno di Natale? “Voglio che in ogni casa
spunti dal pavimento
un albero fiorito
di stelle d'oro e d'argento”. Se comandasse il passero
Che sulla neve zampetta,
sai che cosa direbbe
con la voce che cinguetta?
“Voglio che i bimbi trovino,
quando il lume sarà acceso
tutti i doni sognati
più uno, per buon peso”. Se comandasse il pastore
Del presepe di cartone
Sai che legge farebbe
Firmandola col lungo bastone? “Voglio che oggi non pianga
nel mondo un solo bambino,
che abbiano lo stesso sorriso
il bianco, il moro, il giallino”. Sapete che cosa vi dico
Io che non comando niente?
Tutte queste belle cose
Accadranno facilmente; se ci diamo la mano
i miracoli si faranno
e il giorno di Natale
durerà tutto l'anno.

Lo Zampognaro, Gianni Rodari

venerdì 23 dicembre 2011

Seconda stella a destra e poi dritto...

Mai come in questo periodo è bello guardare i lungometraggi animati Disney. La Spada nella roccia, Robin Hood, Cenerentola, La Sirenetta, Aladdin, La Bella e la Bestia... alzi la mano chi non ha visto questi film almeno una volta nella vita. La cosa singolare è che tutti pensiamo che siano film da bambini, ma non è affatto così: sono realizzati appositamente per ricordare agli adulti che sono stati bambini e per alimentare dentro di loro (dentro di noi) quella famosa scintilla di cui parlavo ieri.
Spesso i ricordi che abbiamo della nostra infanzia non sono belli. Se ci fate caso, tendiamo a trattenere nella memoria molto di più i momenti brutti: quel compagno a scuola che ci faceva i dispetti e ci prendeva in giro, i genitori che ci costringevano a passare pomeriggi noiosissimi coi parenti, le maestre a scuola che erano severe e ingiuste, le scarpe orrende che mamma e babbo ci costringevano ad indossare, certi maglioncini di lana che bucavano ed erano una vera tortura...
Ma ci saranno stati anche dei momenti belli, no? Eppure, provate a chiedere ad un adulto se vorrebbe tornare bambino: a parte quei pochi che vogliono essere a tutti i costi romantici, la risposta sarà "ma neanche morto!". Perché l'età adulta è l'età dei problemi, dei pensieri, del dolore, ma è anche l'età della libertà e dell'indipendenza, non solo materiale, ma soprattutto morale e psicologica, dai genitori.
I cartoni animati Disney, i fumetti, i parchi a tema, sono stati creati apposta per ricordare ad ogni adulto che non deve dimenticarsi mai della propria parte fanciulla, quella piacevole da ricordare. E, anche senza scomodare Pascoli, sappiamo tutti che, ogni tanto, conversare con il bambino che abita dentro di noi non può che farci bene.
J. M Barrie immaginò Peter Pan e l'Isola che non c'è, questo luogo fatato in cui si accede solo attraverso la fantasia, dote che purtroppo si va spegnendo man mano che ci si avvicina all'età adulta, per poi sparire del tutto. Disney ha reso questo luogo reale; e non solo: lo ha reso "tascabile", a portata di mano. Basta ascoltare una canzone e subito si aprono i cancelli dell' "Isola che non c'è", dove tutti quanti ritroviamo solo i ricordi belli...

giovedì 22 dicembre 2011

Jingle bells swing and jingle bells ring

Secondo freddissimo giorno d'Inverno, mancano tre giorni a Natale... e io devo ancora acquistare la maggior parte dei regali. Ogni anno mi riprometto che non mi troverò all'ultimo minuto davanti alle vetrine con l'aria interrogativa di chi non sa cosa comprare, e mi dico che sarò ben organizzata, comprando alcuni regali addirittura ad Agosto, e poi invece, puntualmente, il 24 Dicembre alle 7 di sera sono in giro per negozi, con le commesse che mi guardano con tanto tanto tanto spirito natalizio!
Ma diciamolo! I regali è bello comprarli gli ultimi giorni, quando il Natale è davvero tutto intorno a noi. Ieri mattina ero in giro per negozi, in centro città, ed ovunque mi girassi era tutto un turbinio di pacchetti e fiocchi, canzoncine natalizie (la più gettonata "Jingle Bell Rock", come nei film!), alberi scintillanti, luci impazzite, bancarelle ricolme di dolci, babbi natali che regalavano le caramelle, bambini estasiati di fronte alle vetrine dei negozi di giocattoli... ecco, io se non vedo tutto questo non riesco a fare i regali di Natale! È come quando vai a un concerto del tuo cantante preferito e lui intona la sua canzone più famosa, che tu hai sentito mille volte...eppure, in quel momento, con tutta la gente intorno che la canta insieme a te, ti sembra più bella e ti si apre il cuore. Ecco, a me fa lo stesso effetto comprare i regali nella settimana che precede il Natale!
Lo so, molti di voi adesso penseranno che il Natale fa schifo, che è solo una festa ipocrita, che si pensa solo al regalo, ecc ecc... Bè, io lo adoro, che vi devo dire? C'è nell'aria questo profumino di festa, tutto diventa più luminso, i centri commerciali traboccano di gente, gli scaffali dei supermercati son pieni di salmoni affumicati, panettoni e pandori, frutta secca, frutta candita, vini e spumanti, tutto si colora di rosso e di oro, di azzurro e argento... e se guardate gli occhi dei bambini e CON gli occhi dei bambini, non potete rimanere indifferenti. Ci deve essere sepolta da qualche parte dentro la vostra anima cinica una scintilla di allegria che si animi di fronte a tutto questo. Ecco, io quella scintilla infantile faccio di tutto per alimentarla, perché finché c'è quella scintilla lì mi sembra di poter superare ogni ostacolo ed ogni problema.
Per quel che riguarda i regali è inutile negarlo: il Natale È a tutti gli effetti una festa del consumismo, come tutte le altre feste. D'altra parte, essendo una material girl, sarei bugiarda se non vi dicessi che i regali mi piacciono tanto, sia riceverli che farli. A tal proposito leggevo due giorni fa un cartellone pubblicitario che mi ha colpito per la sincerità: val più un regalo di mille pensieri! Come non essere d'accordo?

mercoledì 21 dicembre 2011

Sono tutti intorno a noi...

L'altro giorno, girovagando a caso su Facebook, mi sono imbattuta in una pagina bellissima, alla quale mi sono iscritta seduta stante, che si chiama "Uomini col mestruo". Sono stata seguita a ruota da alcune amiche, e insieme a loro mi sono fatta delle vere risate. Perché tutte le donne, prima o poi, hanno avuto a che fare con almeno un esemplare di "uomo col mestruo", ma ognuna ha sempre pensato di essere la sola. Scoprire che invece esiste proprio una categoria di uomini del genere e scoprire che fanno, tutti, gli stessi discorsi, è liberatorio. In quel caso è proprio vero che "mal comune, mezzo gaudio". Tuttavia, riflettendoci bene, la categoria "Uomini col mestruo", a mio modesto parere,  si divide in sottocategorie; ed ecco che vorrei elencarne alcune, secondo l'esperienza che ho maturato in 32 anni di vita sia in prima persona, sia dai racconti delle amiche:

1. Il Lamentoso: È quell'uomo che non è mai contento di nulla. Se gli prepari gli spaghetti al pomodoro, vuole il risotto ai funghi, tu gli fai il risotto ai funghi e lui vuole il minestrone. Non esiste un modo al mondo per renderlo soddisfatto: ha sempre da ridire e lo fa piagnucolando e cercando di far sentire in colpa la gente che gli sta intorno; perché se lui si lamenta mica è colpa sua, è colpa della gente cattiva che non riesce a fare le cose per bene! Solitamente è un uomo che parla tanto, ripetendo il concetto più volte per essere sicuro che tu lo abbia capito bene e cercando di prenderti per sfinimento per ottenere così la cosa che vuole in quel momento. Che tanto non gli andrà bene.
2. La Vittima: Oh, povero caro! La gente non lo capisce. Tutti ce l'hanno con lui. Nato con velleità da capro espiatorio, si pone come agnello sacrificale nei confronti dell'Universo. Se fa qualcosa di sbagliato e tu ti incazzi, assume quell'atteggiamento di rassegnazione del tipo "ma sì, è normale, tanto ormai ci sono abituato, spara pure sulla Croce Rossa, divertiti con me, poverino, che invece sono tanto buono!". E dato che tu, di fronte a questo atteggiamento, ti innervosisci ancora di più, lui rincara la dose: "ognuno ha la sua croce, a me è toccata questa! Ma sì, dai insultami pure, tanto sei cattiva e non capisci invece quanto io sono bravo e bello e buono!". È quell'uomo che, di solito, ti costringe a cambiare il servito di piatti abbastanza spesso perché tendi a romperglielo in testa.
3. Il Narciso: È bene mettere subito in chiaro che, nella coppia, il bello è lui. Questo è un dato di fatto e non è in discussione. Lui si dona a te e tu devi essere degna di ricevere questo dono, guadagnandotelo con fatica ogni singolo giorno. Si muove spargendo feromoni intorno a sé come semi al vento, salutando con la mano le donne che incontra manco fosse la Regina Elisabetta. Ha principalmente amiche femmine, ma solo perché fa un favore agli altri uomini, che non sopporterebbero l'idea di doversi confrontare, perdendo, con un amico inarrivabile come lui! Non capisce come sia possibile che, camminando per strada, tutte le donne non si gettino vogliose ai suoi piedi... e infatti fa di tutto perché ciò accada. Ma tu non essere gelosa! Lui si dona a te, sei tu la fortunata prescelta. Se non volevi un uomo tanto desiderato, dovevi scegliere quel bruttone del tuo collega, non lui. Eh!
4. Il Nato Imparato: Tutto ciò che dici è una cazzata. Lui e solo lui ha in mano il sapere universale e tu dovresti baciare la terra dove cammina perché lui decide di dividere con te una parte del suo immenso sapere. Lui sì che ha studiato, lui sì che aveva insegnanti severi, lui sì che si è guadagnato con fatica e sudore il suo Titolo di Studio. Di solito ha frequentato facoltà come Ingegneria, Informatica, Matematica. Perché tutte le altre facoltà non avrebbe avuto bisogno di frequentarle, essendo già competente in qualsiasi altra materia esistente, da Lettere a Filosofia, da Archeologia a Scienze politiche, da Pedagogia a Storia dell'Arte. Se poi ha frequentato Medicina, si stupisce del fatto che tu non srotoli la guida rossa ogni volta che rientra a casa e non comprende il motivo per il quale ti rivolgi a lui chiamandolo per nome e non “Dottore”.
5. Il Muro di Gomma: Inutile cercare di fargli capire le cose, di parlarci, di ragionare con lui. Ti rispedisce sempre tutto al mittente e continua ad andare avanti per la sua strada. Per lui non sei che un fastidioso rumore di sottofondo a cui, ormai, si è abituato. Fa finta di ascoltarti, ma intanto è immerso nel suo mondo fatto solo di tette, culi, motori e Playstation. Ha la tendenza a negare l'evidenza, e a negare di aver negato l'evidenza, e a negare di aver negato di aver negato l'evidenza e così via, all'infinito, tanto prima o poi uno dei due si stanca e stai pur sicura che non sarà lui.
6. Il Cervellotico: È colui che, nelle discussioni, riesce a condurti in un labirinto intricatissimo, passando di argomento in argomento, dal quale tu non riesci più ad uscire, e non riesci nemmeno a ricordarti come e perché siete arrivati fin lì. La sua è una tattica che assomiglia un po' a quella del Muro di Gomma sopra citato, ma più raffinata: ad un certo punto ti stanchi di parlare con lui, ma non perché non risponde e/o nega. No, lui ribatte punto per punto, senza mai mostrare segni di cedimento, con ragionamenti sempre più minuziosi e complicati. È quello capace di dirti “non devi tenerti libera per uscire con me perché te lo chiedo io, ma perché lo vuoi tu, in modo che quando, per caso, anche se ti avevo detto di uscire, non usciamo, tu non te la prendi con me, perché sei tu che hai scelto di uscire con me, non te l'ho chiesto io, quindi non ha senso che tu ci rimanga male! Lo sai che ho tanto da fare... a proposito, domani ci sei? Perché io sono libero. Ma se hai altro da fare non importa, vuol dire che preferisci uscire con altra gente e che forse di me non ti importa così tanto”.

Ovviamente queste sono le categorie principali. Ogni uomo col mestruo ha almeno una delle caratteristiche elencate, ma è molto frequente che ne abbiano anche più di una. Esistono quindi narcisi- cervellotici, lamentosi-vittime, nati imparati-muri di gomma... e così via, secondo tutte le varie possibili combinazioni. Se anche tu riconosci uno o più di questi sintomi nell'uomo che hai accanto, ricorda: non sei sola!

martedì 20 dicembre 2011

C'era una volta una gatta...

Avevo 5 anni e volevo un gattino a tutti i costi. Non facevo altro che chiedere ai miei genitori di prendermene uno e loro, ovviamente, mi rispondevano sempre "se sarai buona... chi lo sa!". Ed io, evidentemente, mi ci misi d'impegno e fui un vero angelo, perché una bella mattina, davanti al portoncino d'ingresso sul retro della casa, mia madre trovò una gattina siamese di circa tre mesi. Arrivò così, dal nulla. Nessuno ha mai saputo come fosse arrivata lì e nessuno ne reclamò mai la scomparsa. Mia madre la raccolse e la portò in casa.
Il pomeriggio di quello stesso giorno, i miei genitori mi fecero trovare una scatola rosa e dentro, con un bel fioccone rosa al collo, c'era la siamesina dagli occhioni blu. Sembra la descrizione di una pubblicità anni '80 della Barilla, ma andò proprio così.
Era proprio bellina. Tenera e morbida, tutta un dentino affilato, miagolava con un filino di voce e sembrava aver capito da subito che sarebbe stata bene in quella casa di campagna piena di persone. La mia bisnonna le trovò il nome, Gigia (classico nome toscano da gatta, versione femminile di "Gigi"). Non aveva molta fantasia, lo so. Ma essendo la gattina di un bel grigio chiaro sfumato di grigio più scuro, Gigia le stava benissimo, anche per assonanza.
Avevamo anche Chico, il vecchio cocker buontempone che viveva a casa mia già da prima che io nascessi, e al quale facevo di tutto senza che lui mostrasse un minimo segno di insofferenza. Quando arrivò Gigia, fra lei e il cockerone scoppiò il vero amore.
Stavano sempre insieme e dormivano nella stessa cuccia: lei si infilava tutta nel pelone del cane per sentire il calduccio e intanto muoveva le zampine facendo le fusa. Mangiavano perfino insieme, dalla stessa ciotola, prima lui e poi lei, perché gli anziani hanno la precedenza e questo la gattina lo aveva imparato bene.
Purtroppo l'idillio finì presto: Chico aveva già 17 anni ed era malato. Un paio d'anni dopo l'arrivo di Gigia, morì per un'infezione all'orecchio.
Per la gatta fu un trauma. Ogni mattina lo cercava, miagolando disperata. Correva fuori appena sentiva abbaiare un cane e aspettava per ore davanti alla porta di casa, ferma immobile.
Poi, ad un certo punto, riprese la sua vita da gatta e tutti pensammo che avesse finalmente dimenticato il povero Chico.
Finché un giorno di quasi due anni dopo, mio padre appese un calendario con una grande fotografia di un cocker che era identico al nostro. La siamesina salì sul tavolo, guardò verso il muro dove era appeso il calendario e rimase per qualche istante a fissarlo. Poi si avvicinò, ed emettendo un flebile miagolio che mai fino a quel momento le avevamo sentito fare, mosse la zampina verso la foto del cane, quasi a volerlo accarezzare. Rimanemmo tutti a bocca aperta, commossi. Anche adesso, mentre sto scrivendo e ricordando, mi è scesa una lacrima.
Quando, qualche anno dopo, morì anche lei, la seppellimmo vicino al cane, in giardino. Ogni tanto passo là davanti e non posso fare a meno di pensare che, per quanto grande sia l'intelligenza umana, non sarà mai in grado di scoprire cosa si celi davvero nei sentimenti degli animali che ci circondano.

lunedì 19 dicembre 2011

Il buon film si vede dal finale

Vi è mai successo, dopo essere stati al cinema, di uscire con quella sensazione di leggero e persistente fastidio, perché il finale del film appena visto non è stato all'altezza delle aspettative? A me succede spesso. Al di là del fatto che sono una fan dell'happy ending, e quindi se un film "finisce male" io rimango delusa per una settimana, anche quando "finisce bene" a volte mi trovo a pensare: tutto qui? Dopo due ore in cui lui e lei si amano ma affrontano mille peripezie, scontri, difficoltà, lacrime e sacrifici, spesso il film finisce in due minuti scarsi: oh! ti amo, anch'io tesoro, e se ne vanno mano nella mano, fine.
E tu rimani come se ti avessero tolto il piatto mentre stavi per mangiare il boccone più succulento che ti eri tenuto da parte per tutta la cena.
Il finale è determinante. Ci sono film che sarebbero stati interessanti, magari anche belli, ma rovinati dalla sequenza finale e quindi inguardabili.
A volte si ha proprio l'impressione che gli sceneggiatori, rimasti a corto di idee, decidano di farla finita col film e lo chiudano in quattro e quattr'otto senza una logica.
Ecco, c'è invece un finale che, a mio avviso, è uno dei migliori nella storia del cinema. Sto parlando di quello di "Ufficiale e Gentiluomo", film del 1982 con Richard Gere e Debra Winger.
I maschietti storceranno la bocca, lo so. Ma provate per un attimo a non essere influenzati dai gusti personali (mi rendo conto che la trama è confezionata su misura per un pubblico femminile) e provate a giudicarlo in maniera oggettiva: poteva esserci un finale migliore per quel film?
Se conoscete la storia, saprete che il protagonista è Zack Mayo, ragazzo problematico in perenne conflitto con il padre e segnato profondamente dal suicidio della madre, avvenuto quando lui era appena adolescente. Subito dopo il diploma, Zack decide di diventare un pilota della marina ed entra nella Scuola Ufficiali per un corso della durata di tredici settimane. Lì incontra il sergente Foley, l'istruttore che gli rende la vita decisamente dura, fa amicizia con un altro cadetto, Sid, e insieme a lui conosce due ragazze del posto: Lynette e Paula. Proprio con quest'ultima Zack inizia una relazione che, a detta di entrambi, dovrebbe essere "senza impegno". In realtà, lei sogna da sempre di riuscire a sposare un pilota ed evitare quindi di rimanere a lavorare in fabbrica e di fare la fine di sua madre. Dal canto suo Zack ha paura dei legami; scontroso e taciturno non ha ancora superato i traumi giovanili, ha un carattere difficile e ribelle e non riesce ad affezionarsi davvero a nessuno. Quando capisce che il legame con Paula sta diventando troppo impegnativo, perché la ragazza è chiaramente innamorata di lui e anche lui si sta innamorando, se ne allontana volutamente.
L'amico Sid, invece, si innamora di Lynette, arrivando perfino a volerla sposare dopo che lei gli fa credere di essere rimasta incinta. Ma fa un errore gravissimo: si congeda. E dato che Lynette, invece, voleva sposare un pilota per fare la bella vita e viaggiare per il mondo, quando Sid va da lei e le chiede di sposarla lei lo rifiuta e gli confessa anche di non essere incinta. In seguito a questo, Sid si uccide. E Zack, che aveva finalmente trovato un amico vero, si trova di nuovo a dover affrontare la perdita improvvisa di una persona cara.
E qui arriva la famosa scena finale: Zack capisce che, comunque vada, è inutile sfuggire ai sentimenti per paura di soffrire, perché si soffre comunque, e quindi decide di tornare da Paula. Prende la moto e si reca alla cartiera dove lei lavora; bello da morire, in divisa bianca da Allievo Ufficiale, attraversa tutta la fabbrica sotto gli occhi delle operaie che lo guardano a bocca aperta. Si avvicina a lei, che ancora non lo ha visto, e la bacia sul collo. Lei si volta, lo guarda con sorpresa (e qui di solito io ho i brividi) e lui la prende in braccio, la bacia e la bacia ancora, e insieme si avviano verso l'uscita. Il tutto condito da una bellissima colonna sonora che ti fa rizzare i peli sulle braccia.
Dopo aver sofferto insieme alla protagonista per due ore, ogni donna si immedesima in lei: e vi posso assicurare che essere presa e portata via da un bellissimo uomo in divisa, mentre sei al lavoro, sotto gli occhi delle tue colleghe che ti invidiano perché tu stai realizzando il sogno di tutte, è probabilmente la cosa che qualsiasi donna vorrebbe di più al mondo; più di un paio di Jimmy Choo, più di una borsa di Hermès, più di un gioiello di Tiffany.
Al di là della trama, che può piacere o no, questo è IL finale perfetto. Quello che non ti delude e non ti lascia con l'insoddisfazione, quello che non ti fa pensare "nooo, tutto qui???". Quello che lo riguardersti cento volte, che ti lascia con gli occhi umidi e la sensazione che il film, quel film, non sarebbe potuto finire meglio.
Quasi quasi me lo riguardo, va'... 

domenica 18 dicembre 2011

Le 10 cose che vorrei per Natale

1. La neve (perché senza il freddo non è Natale, l'altro giorno ho avuto la tentazione di uscire con le infradito);
2. Il panettone (tutti gli anni me ne regalavano una decina, quest'anno uno solo e di sottomarca. C'è proprio crisi...);
3. I regali inutili e/o assurdi dei parenti (che poi riclicherò durante tutto l'anno per i vari compleanni di altri parenti: mia zia non ha mai saputo di aver sempre fatto il regalo alla cugina di mia madre);
4. La febbre (così ho la scusa per restare in casa e non accompagnare mia madre alla consegna dei regali ai suddetti parenti);
5. La Poste Pay ricaricata di almeno 300 euro (che poi il regalo, quello bello, me lo faccio per conto mio);
6. il telefono rotto (così evito di rispondere alle letelefonate di chi si ricorda di me solo a Natale);
7. Il pacco pieno di cibo che il mio vicino di casa ragala sempre a mio padre (perché aspetto tutto l'anno per potermi mangiare uno dei biscottini alla vaniglia che vi sono contenuti: probabilmente li fanno direttamente i folletti di Babbo Natale, perché li ho cercati ovunque, ma li trova solo il mio vicino di casa);
8. Una bottiglia molto grande di prosecco (che poi tanto dopo due bicchieri sono K.O.);
9. L'immancabile "Mary Poppins" in tv (che alla fine piango sempre e quelle sono le lacrime migliori di tutto l'anno, perché almeno non sono di rabbia e/o dolore e/o delusione);
10. Le lasagne (ma quelle me le faccio da sola, che quelle di mia madre le digerisco a San Ranieri -17 Giugno- ).

Tutto il resto, le cose classiche, come smettere di veder soffrire i bambini, sperare che trovino le cure per le malattie rare e/o incurabili, la pace nel mondo, smettere di vedere la gente rubare il pane perché non sa come arrivare a fine mese, non le ho inserite in lista, perché quelle sono le cose che vorrei tutto l'anno e non solo a Natale.

Chi ben comincia...

"Devi volerti più bene". Me lo sento dire da un sacco di tempo. Come se non mi volessi bene. Anch'io, come tutti, sono fondamentalmente egoista e quindi, in effetti, mi amo. Il problema è che non me lo dimostro, il bene che mi voglio. Il problema è che, forse, penso di non meritarmelo, il bene che mi voglio.
Come tutti coloro che soffrono di una scarsa autostima, mi sembra di dovermi guadagnare con la fatica qualsiasi dimostrazione di affetto che mi venga rivolta. Mi trovo, a volte, a provare gratitudine per chi mi dimostra un po' di tenerezza e di attenzione, come se mi fossi macchiata di chissà quale colpa, come se ritenessi giusto che gli altri non mi considerino degna delle loro attenzioni. Per questo mi meraviglio sempre quando invece mi arriva una sincera dimostrazione di attaccamento. E tendenzialmente la guardo con diffidenza.
E così, esattamente come faccio nel confronti degli altri, lo faccio anche con me stessa. Mi guardo con diffidenza, evito di ripetermi ogni giorno che io sono brava, bella, buona e mi merito tanto dalla vita, e tendo a guardare solo i difetti.
Per una volta invece voglio provare a dirmelo, a urlarmelo, il bene che mi voglio!
Perché me lo merito! Perché sono effettivamente buona e brava e gentile con gli altri, perché sono disponibile, perché nei rapporti interpersonali non conosco le mezze misure, perché quando voglio bene a qualcuno lo faccio senza aspettarmi nulla in cambio. E queste, anche se non sono doti speciali, sono comunque delle qualità, no? Dei pregi. E di solito una persona che possiede questi pregi è benvoluta.
E io, infatti, mi voglio tanto bene. Ecco fatto, l'ho detto. Il più è fatto.
Ora devo solo cominciare a dimostrarmelo. Che ci vuole? Si tratta solo di stravolgere la mia vita.

Ce la posso fare!

giovedì 15 dicembre 2011

Grazie, no! Grazie, no! Grazie, no!

Tutti conoscerete Savinien Cyrano de Bergerac, poeta e drammaturgo francese (nonchè abilissimo spadaccino) vissuto nel '600; la sua figura ha ispirato la celeberrima opera teatrale (pubblicata nel 1897) "Cyrano de Bergerac" di Edmond Rostand.
La commedia, suddivisa in cinque atti, racconta, appunto, le vicende di Cyrano, poeta e scrittore dal lungo naso, bravo nel ferire i nemici sia con la lingua che con la spada. Scontroso e niente affatto disposto a scendere a compromessi, nonostante stia attraversando un periodo di gravi difficoltà economiche, è segretamente innamorato della cugina Rossana. Quest'ultima però ama un altro, il bel cadetto Cristiano de Neuvillette, che possiede tante doti ma non quelle della poesia e della scaltrezza linguistica, che sarebbero invece tanto gradite a Rossana. Il povero Cyrano, per una serie di sfortunate circostanze, si ritova, suo malgrado, a doversi prendere cura del giovane Cristiano e perfino a fargli da suggeritore quando egli, nottetempo, si reca sotto il balcone di Rossana per corteggiarla.
Ho fatto tutta questa premessa perché oggi voglio condividere con voi un monologo tratto proprio da questa commedia, che fece la fortuna del suo scrittore, fino ad allora considerato mediocre e successivamente, invece, insignito della Legion d'Onore.
Il monologo (atto II, scena VIII) è la risposta che Cyrano dà agli amici che gli consigliano, data anche la sua condizione economica non proprio florida, di sottomettersi ai potenti, di fare un po' il leccapiedi e di cercare così di scampare ad un'esistenza grama. Ed ecco la risposta orgogliosa del poeta spadaccino, che a mio avviso, visti anche i tempi che corrono, dovrebbe essere fatta imparare a memoria agli studenti fin dalle elementari:


"Orsù che dovrei fare?....
Cercarmi un protettore, eleggermi un signore,
e come l'edera, che dell'olmo tutore
accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza,
arrampicarmi, invece di salire per forza?
No, Grazie!

Dedicare, com'usa ogni ghiottone,
dei versi ai finanzieri? Far l'arte del buffone
pur di vedere alfine le labbra di un potente,
schiudersi ad un sorriso benigno e promettente?
No, Grazie!

Saziarsi di rospi? Digerire
lo stomaco per forza dell'andare e venire?
Consumar le ginocchia? Misurar le altrui scale?
Far continui prodigi di agilità dorsale?
No, grazie!

Accarezzare con mano abile e scaltra la capra,
e intanto il cavolo innaffiare con l'altra?
E aver sempre il turibolo sotto dell'altrui mento,
per la divina gioia del mutuo incensamento?
No, grazie!

Progredire di girone in girone,
diventare un grand'uomo tra cinquanta persone,
e navigar con remi di madrigali, e avere
per buon vento i sospiri di vecchie fattucchiere?
No, grazie!

Pubblicare presso un buon editore,
pagando, i propri versi! No, grazie dell'onore!
Brigar per farsi eleggere papa nei concistori
che per entro le bettole tengono i ciurmatori?
No, grazie!
Sudar per farsi un nome su di un picciol sonetto
anziché scriverne altri? Scoprire ingegno eletto
agl'incapaci, ai grulli; alle talpe dare ali,
lasciarsi sbigottire dal rumor dei giornali?
E sempre sospirare, pregare a mani tese:
Pur che il mio nome appaia nel Mercurio francese?
No, grazie!

Calcolare, tremar tutta la vita,
far più tosto una visita che una strofa tornita,
scriver suppliche, farsi qua e là presentare?...
Grazie, No! Grazie...No!
...Grazie... No!
 

Ma,
Cantare, Sognar sereno e gaio, libero indipendente,
aver l'occhio sicuro e la voce possente,
mettersi quando piaccia il feltro di traverso,
per un sì, per un no, battersi o fare un verso!

Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna,
a qual sia più gradito viaggio, sulla luna!


Nulla che sia farina d'altri scrivere, e poi
modestamente dirsi: ragazzo mio, tu puoi
tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia
pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccolga!


Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte,
non dover darne a Cesare la più piccola parte,
aver tutta la palma della meta compita,
e, disdegnando d'essere l'edera parassita,
pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto
salir, anche non alto, ma salir senza aiuto!"


mercoledì 14 dicembre 2011

Il giorno che sono diventata adulta

Fra poco saranno undici anni. Undici anni che non ho potuto parlare con lei, non ho potuto raccontarle nulla della mia vita complicata e non ho potuto cercare consolazione da lei quando ho scoperto di avere il diabete. Mia nonna aveva 63 anni quando, a causa di una leucemia, è morta. Io ne avevo 22 e, anche se non ero affatto pronta, il giorno in cui se n'è andata è stato anche quello in cui è finita la mia infanzia.
Mi ha fatto da mamma, e non è una frase fatta. Fra me e mia madre (sua figlia) ci sono solo 19 anni di differenza. Sposandosi presto e avendo avuto una bambina così giovane, mia madre è rimasta un'eterna ragazzina. Mio padre, di dieci anni più vecchio, l'ha sempre un po' trattata come un'altra figlia e quindi lei si è posta sempre nei miei confronti quasi più come una sorella che come una mamma di quelle classiche. Tutt'ora mi ruba i vestiti e i trucchi, è fan di Twilight molto più di me e ascolta i Modà.
Vivevamo tutti insieme in questa grande casa nella campagna pisana, i miei genitori, i miei nonni materni, la mia bisnonna (mamma della mia nonna) ed io. Poi nel 1992 morì la mia bisnonna e mia nonna divenne il grande perno cui attorno girava tutta la famiglia.
Lei pensava a tutto e prendeva tutte le decisioni. È stata lei ad insegnarmi a cucinare; se avevo un problema era la prima persona a cui mi rivolgevo, e probabilmente era l'unica al mondo che sapeva capirmi ancora prima che parlassi. Non aveva studiato oltre la licenza elementare, ma era sveglia ed intelligente, con occhi furbi e scrutatori; difficilmente riuscivi a fregarla ed aveva un'innata propensione alla battutina tagliente (dote che mi ha trasmesso tale e quale).
Quando ha scoperto di essere malata, due anni prima che morisse, abbiamo fatto di tutto per tenerle nascosta la verità (ovvero che la sua malattia le lasciava davvero poche speranze di vita) perché i dottori ci avevano consigliato di non mandarla in depressione, in modo che reagisse bene alla chemioterapia. In due anni l'ho vista perdere i capelli, coprirsi di lividi a causa delle micro emoraggie che le procurava la malattia, smettere di camminare e di mangiare, avere la febbre talmente alta da non riuscire a parlare. Mia madre e mio padre erano sempre fuori casa per lavoro, mio nonno non era in grado di assisterla, e quindi toccava a me. Lo facevo sempre col sorriso e col tono di chi fa una cosa piacevole, scherzavo con lei sui capelli che cadevano e sulla parrucca, le cucinavo le cose che puntualmente finivano nella pattumiera e mi prendevo in giro dicendole che non ero brava come lei. Poi, la notte, piangevo. La sensazione di impotenza di fronte a una persona che sta morendo, la paura di vederla peggiorare da un giorno all'altro, la speranza, sempre vana, di vedere un qualche miglioramento dalle analisi che le venivano fatte settimanalmente e poi giornalmente, sono sensazioni che ancora oggi, dopo undici anni, popolano spesso i miei incubi.
È morta appena dopo Natale, nel 2000, il 29 Dicembre. Una delle cose che mi ha sempre straziata e insieme mi ha resa orgogliosa di lei è che non si è arresa, mai, fino alla fine. La morte l'ha trovata vigile. Un attimo prima di morire, nel letto del reparto malati terminali dell'ospedale, si è rivolta a mio padre, che era lì che le teneva la mano, e gli ha detto "guarda, c'è il dottore che sta passando nei corridoi, vai a sentire se domani posso uscire e se sto meglio". Poi ha guardato mio nonno, gli ha sorriso, ed è morta.
Cosa si può ancora dire di una donna così? Che era straordinaria, mi sembra suoperfluo. Che mi manca, tanto, è scontato. Non è passato un solo giorno in questi undici anni in cui non abbia pensato a lei. Talvolta mi scopro ad aspettarla, come se fosse uscita e dovesse rientrare, oppure apparecchio la tavola anche per lei, se sono sovrappensiero.
Vorrei solo risentire la sua voce, perché non me la ricordo più.

martedì 13 dicembre 2011

Sono svampita e me ne vanto!

Mi capita ogni tanto di leggere, sulle pagine degli amici di Facebook, i commenti di chi vuol essere sempre ed a tutti i costi polemico oltremisura.
Ametto di essere una di quelle che non si tira indietro di fronte alla rissetta verbale che, non ve lo nascondo, a volte cerco volutamente anche come valvola di sfogo (cosa c'è di più bello che "trollare" illustri sconosciuti che scrivono stronzate- scusate il francesismo- su facebook?). Tuttavia, trovo ridicola la pratica di certi personaggi che, forse per "distinguersi dalla massa", credono che un commento con tanto di linguaggio forbìto e una costruzione sintattica che farebbe impallidire Manzoni, basti a farli entrare nell'Olimpo degli acculturati  liberi di sparare giudizi su tutti i comuni mortali colpevoli d'ignoranza e di qualunquismo.
Sono consapevole di essere io stessa talora vittima della Grande Malattia che colpisce chiunque abbia fatto studi umanistici: lo snobismo intellettuale. Non è raro, infatti, che un laureato in Lettere o in Filosofia arricci il naso con fare disgustato di fronte alle persone che mostrino una conoscenza limitata delle arti, della letteratura e della lingua. Ma ciò che ognuno di noi dovrebbe ricordarsi è che lo snobismo è, appunto, una malattia, non un vanto, e come tale andrebbe curata. Specialmente quando diventa cronica e acuta, anche perché esiste un confine molto sottile che separa gli intellettuali antipatici ma che sanno il fatto loro e quindi rispettabili, dai coglioni (quelle finesse!) con la puzza sotto il naso ridicoli e patetici.
Io credo che la vera sapienza sia da ricercarsi nell'umilità e nel rispetto. Il famoso "so di non sapere" detto da Socrate la dice lunga.
Il primo passo per guarire dallo snobismo intellettuale è quello di prendere coscienza della "malattia"; capire che spesso con certi commenti si appare ridicoli e fuori luogo; mettersi in discussione e non credere che per avere un'opinione valida sia necessario fare il bastian contrario in ogni occasione.
Il secondo passo da fare è smettere di pensare che, per essere considerati sapienti ed essere rispettati per questo, sia necessario disquisire solo di storia, arte, letteratura, matematica, scienza e musica classica. Il saper sostenere una conversazione che spazi da Dante al Grande Fratello, quello sì che è vero indice di una mente aperta. Come diceva Pascal, del resto, "è molto più bello sapere qualcosa di tutto, che tutto d'una cosa".
Il terzo ed ultimo passo è quello di non ostentare a tutti i costi le cose che, nel corso della vita, per studio o per piacere, si sono apprese. Se interrogati, è bello rispondere con cognizione di causa, ma in caso contario, che senso ha intervenire a gamba tesa in una conversazione dai toni leggeri e spensierati con l'aria saccente di chi pensa "poveri ignorantelli, ora vi insegno qualcosa io!"?
Come ho già detto, anch'io sono stata vittima (e purtroppo a volte ho delle ricadute) di questo brutto male; tuttavia, qualche tempo fa, un conoscente, leggendo alcune cose che scrivevo su facebook, mi ha accusata di apparire troppo superficiale, poiché parlavo di cose di poca importanza e giocavo a fare la svampita. Il bello è che ha pensato di avermi offesa, invece non poteva farmi un complimento più bello, perché lì ho capito che stavo davvero guarendo!

lunedì 12 dicembre 2011

La differenza tra essere giovani ed essere "giovanili"

No, questo no. Non lo posso accettare. Pare che Tom Cruise abbia annunciato che, a breve, girerà il sequel di "Top Gun", quel meraviglioso film del 1986 che ha turbato i sogni di tutte le ragazzine e le donne che lo hanno visto da allora in poi; quel film in cui Tom, alias Pete "Maverick" Mitchell, ha 24 anni, è giovane, prestante ed è un pilota della Marina Militare americana. Nel tempo libero gioca a pallavolo sulla spiaggia coi jeans stretti e a torso nudo, gira con la moto (una Kawasaki modello GPZ 900r) e gli occhiali da sole, ha un caratteraccio ribelle e seduce con un solo sguardo la protagonista Kelly McGillis, alias Charlotte "Charlie" Blackwood.
Avevo 7 anni quando l'ho visto per la prima volta e ho deciso che lui sarebbe stato l'uomo "prototipo", quello su cui misurare qualsiasi altro uomo in carne ed ossa incontrato nella vita. E non ho ancora cambiato idea.
Perfetto in tutto, dalla bellezza non esagerata e non ostentata (ma si sa che nell'uomo conta molto di più il livello di "figaggine" piuttosto che la delicatezza dei tratti) al modo di camminare e di muoversi, dal carattere ribelle e complicato a quella specie di follia di chi non ha mai paura di niente, Maverick è, senza ombra di dubbio, l'uomo dei sogni. O almeno dei miei.
Mi domando come possa Tom Cruise, che adesso ha 50 anni (anche se è ancora giovanile, per carità), reggere il confronto con il se stesso di 25 anni fa. Cosa potrà mai fare il bel Maverick? L'istruttore di un nuovo giovane pilota indisciplinato? Il pilota sarà una ragazza che si innamorerà di lui? Lo troveremo magari divorziato dalla bella Charlie (il che mi pare quasi scontato, visto che l'attrice a suo tempo aveva già trent'anni suonati e ora sembra sua nonna) e con un figlio ribelle che soffre il confronto con la figura paterna?
Ma perché sciupare ciò che era perfetto...
Era sempre lì a disposizione, un eroe dei nostri tempi senza macchia e senza paura, un sogno "prêt-à-porter" inalterato nel tempo. Adesso saremo costrette tutte quante a crescere e ad invecchiare di colpo insieme a lui, rendendoci conto che anche l'uomo dei sogni si fa il lifting e si tinge i capelli.

domenica 11 dicembre 2011

Finché morte non ci separi. La tua.

Avete mai visto il film "Il padre della sposa"? Intendo quello del 1991 con Steve Martin (remake dell'omonimo film del 1950 con Elizabeth Taylor e Spencer Tracy). Se lo avete visto, e se lo amate come me, conoscerete bene la figura di Franck Eggelhoffer (leggi "Fronk"), l'organizzatore di matrimoni che rende la vita del povero padre della sposa un vero inferno. Ebbene, era proprio a Fronk che pensavo ieri, presenziando al matrimonio di un amico, organizzato in uno dei posti più chic della toscana: L'Hotel quattro stelle lusso "Principe di Piemonte" a Viareggio.
Se ci fosse stato Fronk ieri, molti dei problemi che si sono presentati sarebbero stati risolti in un baleno! Innanzitutto, appena arrivati in hotel subito dopo la cerimonia in chiesa, è serpeggiato il malumore fra i parenti della sposa, perché , Oh mon Dieu!, mancavano i sottopiatti! L'Hotel non li aveva uguali per tutti e quindi non sono stati messi... avete presente l'apocalisse? Ecco, più o meno è stata quella la reazione. A tal proposito, ho subito pensato che la grande differenza tra la gente chic e la gente "normale", come me, è che quest'ultima è molto più interessata a quello che viene messo sopra i piatti e non sotto.
Ciò che è stato messo sopra i piatti era decisamente buono... almeno, così mi è parso, anche se avrei preferito che la porzione del risotto ai carciofi con provola affumicata e lardo di colonnata fosse leggermente più abbondante di quei 30 grammi scarsi; ma come dice sempre una mia cara amica: "i ricchi spendono tanto e mangiano poco: è per questo che sono magri!".
I posti a tavola erano stati assegnati secondo la nuova moda: un tempo c'erano gli sposi, i genitori, poi i testimoni, poi i parenti, gli amici, i conoscenti. Tutti seduti al tavolo fatto a ferro di cavallo, tutti uguali. Adesso no. Gli sposi erano seduti al loro tavolo, soprannominato "diamante" insieme ai testimoni (ed era lì che ero seduta io, essendo accompagnatrice del testimone dello sposo). I genitori erano seduti a due tavoli separati: quelli di lui al tavolo "smeraldo", quelli di lei al tavolo "rubino" e così via: a seconda dell'importanza degli invitati, anche i tavoli diventavano via via pietre meno preziose. Se eri seduto al tavolo "ametista" sapevi già di essere un invitato "semiprezioso". Fronk non l'avrebbe permesso! La battuta più bella che ho sentito fare ieri, a tal proposito, è stata quella di uno dei due testimoni allo sposo: "sembra di essere al G8... guarda, i tuoi amici sono seduti al tavolo dell'Africa centrale!".
Appena mi sono seduta al mio posto, l'ultimo della tavolata, la nonna della sposa mi è corsa incontro facendomi alzare subito perchè "una tavola non dovrebbe mai chiudersi con una signora!". Ok, è evidente che non sono una signora. Mi sono sentita come una contadinotta che non sapeva quale posata usare (ed in effetti c'era sul tavolo una specie di coltello a forma di cucchiaio che nessuno ha usato, non sapendo a cosa servisse). Non si finisce mai di imparare, quanto è vero! La prossima volta mi studierò a memoria il cermoniale di corte spagnolo prima di presenziare a un matrimonio.
Per il resto, la festa è stata piacevole e divertente, gli sposi abbastanza rilassati, gli invitati sono andati via soddisfatti, le signore hanno fatto a gare di vestiti, borse e scarpe, come al solito, ma credo tutto sommato di non aver sfigurato.
Solo una cosa mi rimane sempre ostica da comprendere e riguarda la formula con cui gli sposi si scambiano le promesse: "...prometto di esserti fedele sempre, nella gioa e nel dolore, in salute e in malattia e di amarti e onorarti per tutti i giorni della mia vita". Ma non sarebbe più giusto dire "della tua vita"? Se uno dei due muore prima, quello che rimane non ha il diritto di amare e onorare un'altra persona? Dovrebbero cambiare la formula, perché, secondo me, è proprio sbagliata!
Viva gli sposiiii!!

sabato 10 dicembre 2011

il coraggio di scegliere il rimorso

Ognuno di noi, prima o poi, si è trovato a dover fare delle scelte. Non so voi, ma io, quando mi trovo di fronte a un bivio, non mi pongo troppe domande, di solito scelgo la cosa che mi fa star meglio in quel momento, senza preoccuparmi se quella scelta avrà poi delle conseguenze catastrofiche per me. Questo perché mi fanno molta più paura i rimpianti che i rimorsi. Una cosa non vissuta non finisce mai davvero, rimane cristallizzata e immobile nelle nostre fantasie. Mi terrorizza l'idea di potermi alzare una mattina e pensare "se avessi avuto il coraggio, se ci fossi riuscita... e ora è troppo tardi!". Al contrario, mi sembra molto più accettabile pentirmi di una scelta che poi si rivela errata, sarà perché ho la tendenza a guardare sempre avanti ed a cercare di rimediare agli errori commessi. Tuttavia, è sempre più facile decidere se la scelta è fra stare fermi o agire. Quando invece il bivio che avete davanti è fra due diverse strade e voi vorreste percorrerle entrambe, lì diventa quasi impossibile evitare di star male, perché in ogni caso dovrete rinunciare a qualcosa a cui tenevate. Lì ci vuole il coraggio, quello vero.
C'è una poesia molto bella che affronta questo tema e che voglio condividere con voi. L'autore è Robert Frost, poeta statunitense vissuto fra la fine dell'800 e la metà del '900, che molte fan di Twilight conosceranno perché sua è la poesia "Fuoco e ghiaccio" alla quale l'autrice si è ispirata per scrivere un intero capitolo del terzo libro della saga, "Eclipse". I detrattori di Twilight non storcano il naso di fronte a questo poeta, perché con la saga vampiresca non c'entra un bel niente. È stato solo un caso che abbia scritto una poesia (bellissima fra l'altro) che fosse perfetta per l'argomento trattato in quel momento da Stephenie Meyer.
La poesia che voglio riportarvi, però, è un'altra; si intitola "La strada che non presi" ed è così che voglio salutarvi, in questo sabato di quasi metà dicembre: riflettete bene sulle scelte che fate ogni giorno, perché cambieranno inevitabilmente il corso della vostra vita.

Due strade divergevano in un bosco giallo
e mi dispiaceva non poterle percorrere entrambe
ed essendo un solo viaggiatore, rimasi a lungo
a guardarne una fino a che potei.

Poi presi l'altra, perché era altrettanto bella,
e aveva forse l'aspetto migliore,
perché era erbosa e meno consumata,
sebbene il passaggio le avesse rese quasi simili.

Ed entrambe quella mattina erano lì uguali
con foglie che nessun passo aveva annerito.

Oh, misi da parte la prima per un altro giorno!
Pur sapendo come una strada porti ad un'altra,
dubitavo se mai sarei tornato indietro.

Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco, e io-
io presi la meno percorsa,
e quello ha fatto tutta la differenza.


Robert Frost, "La strada che non presi"

venerdì 9 dicembre 2011

Crocerossine vs. Principi "celestini sbiaditi"

"Gli uomini non cambiano", cantava la compianta Mia Martini al festival di Sanremo del 1992. E se questa è una grande e indiscussa verità universale, l'altra grande e indiscussa verità è che le donne hanno, tutte, l'istinto da infermierina del tipo "io ti cambierò e ti salverò". Si può dire in pratica che l'umanità intera si sorregga su questi due princìpi; se uno dei due venisse meno, finirebbe il mondo. Altro che Maya e il 2012!
D'altronde, fin da bambine ci insegnano a sperare. Ti raccontano le favole, ti raccontano che se soffri, se subisci le ingiustizie e stai in silenzio, se sai aspettare con pazienza, prima o poi arriverà il tizio in calzamaglia azzurra (che, tutte, immaginiamo più o meno come Roberto Bolle) che ti porterà al sicuro sul suo cavallo bianco. Poi cresciamo, e ci rendiamo conto che non è proprio così. Eppure non ci perdiamo d'animo: negli uomini di cui ci innamoriamo vediamo dei potenziali principi azzurri, dei principi allo stato grezzo, color celestino sbiadito, e ci mettiamo d'impegno per cercare di farli diventare perfetti come nelle favole. E non c'è verso, anche quelle di noi che fin da bambine hanno sviluppato un certo cinismo di fondo (avrò avuto circa sei anni quando, guardando Cenerentola, sospirai "lo voglio anch'io!", mio padre mi chiese "il principe?" e io risposi "no, il vestito!") sono comunque vittime della grande illusione. E loro, gli uomini, lo sanno bene. Sanno che le donne sono pronte a salvarli ed a curarli amorosamente, ed è per questo che inizialmente fingono di essere cucciolotti abbandonati sul ciglio dell'autostrada. Sanno che passerà sicuramente qualcuna che li raccoglierà e li porterà con sé: l'uno contento di aver trovato finalmente chi gli lava a gli stira le camicie e l'altra illusa di poter trasformare quel cucciolotto indifeso nell'uomo perfetto che sogna da una vita.
Ed in base a questo continuo rinnovarsi di inganni, speranze e successive delusioni, il mondo continua ad esistere. Per fortuna, aggiungo. Perchè non voglia il cielo che prima o poi un uomo decida di cambiare davvero e diventare come lo vuole la donna: creerebbe un precedente. Sarebbe la prova vivente che ci si può riuscire, e lì sarebbe l'inizio della fine. Dal canto suo la donna, una volta scoperto che l'uomo dei sogni se lo può creare come e quando vuole, come minimo cambierebbe idea e una volta trasformato il mondo in un allevamento di principi azzurri, cercherebbe di cambiarli e farli diventare tutti dei bastardi, drogati e puzzolenti.
Che rimanga tutto così com'è dunque, basta essere consapevoli di come stanno effettivamente le cose e, magari, smettere di illudere le bambine con le favole. Tuttavia, voglio citare una frase di uno scrittore inglese di fine '800, Gilbert Keith Chesterton "Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi non esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi". Parafrasandola, credo che le fiabe non servano alle bambine (e alle donne) per credere al principe azzurro, perché sanno già che non esiste. Le fiabe servono ad insegnare alle donne ad amare tutti gli uomini, anche i peggiori, come se fossero principi azzurri. Ecco la grande verità.

mercoledì 7 dicembre 2011

Un cow-boy vestito da liutaio

Da un paio d'anni frequento abbastanza regolarmente un amico che, di professione, fa il liutaio. Recentemente ha concesso un'intervista a un giornaletto locale e chi lo intervistava ha scritto che la parola "liutaio" gli evocava immagini di un vecchio signore con gli occhiali in un piccolo laboratorio pieno di legni pregiati e strumenti d'epoca, mentre il ragazzo che si trovava davanti non corrispondeva affatto a questi canoni, coi suoi jeans e i suoi vestiti da cow-boy. Bè, menomale, ho pensato io! Probabilmente quel signore si aspetta che le fabbriche di cioccolato siano tutte come quelle di Willy Wonka e che a Londra, quando cambia il vento, arrivi una strana tata volando con l'ombrellino... ma vabbè, non divaghiamo.
In effetti questo liutaio qua non è affatto un vecchietto con gli occhiali e la barba lunga, ma un ragazzo (meglio sarebbe dire un uomo, vista l'età ormai oltre gli -enta, ma gli voglio bene!) con occhi azzurri e muscoloni, due moto e una macchina sportiva tutta nera che adora sopra ogni altra cosa (ma non va vestito da cow-boy, questo ci tengo a smentirlo, anche perché altrimenti lo prenderei in giro dalla matina alla sera). Non costruisce violini ma strumenti elettrici "pieni di cattiveria", come è solito dire, e ha un laboratorio in effetti piccolo, ricoperto di polvere e pieno zeppo di arnesi che solo lui riesce a trovare in tutto quel caos. Tutti coloro che vanno a trovarlo gli chiedono di poter vedere il laboratorio e gli dicono sempe "ma tu fai tutto qui dentro??", facendolo anche sbuffare ogni volta. Perché lui, sì, fa tutto lì dentro. E come lo fa bene!
Ha imparato da solo. La leggenda vuole che un giorno sia andato da sua madre e le abbia detto che voleva imparare a suonare il basso e lei gli abbia risposto che si poteva scordare che glielo avrebbero comprato, visto che recentemente gli avevano regalato una tromba costosa (perché sa anche suonare la tromba!). E lui, che a quel tempo era un ragazzino sbarbato, non ha fatto una piega. Ha preso un pezzo di legno (pare un tagliere da cucina che sua madre aveva appena comprato e mai usato) e si è costruito il basso da solo. Il primo di una lunga serie.
Nel 2008, poi, ha deciso di accantonare l'università e rischiare il tutto per tutto nell'unica cosa che sapeva di voler fare, ed ha aperto questa piccola liuteria in cui lui è il titolare e anche unico lavorante. Nessuno lo aiuta, si difende da solo dagli attacchi dei colleghi invidiosetti, risponde alle mail ed alle telefonate dei clienti sempre ansiosi per i loro strumenti, disegna i modelli, fa preventivi fino a notte fonda e costruisce strumenti. In quattro anni ne ha costruiti quasi 100 ed è riuscito, sempre da solo, a farsi notare da musicisti importanti (solo per fare due nomi, Ares Tavolazzi, bassista degli Area e Patrick Djivas bassista della PFM).
Questo liutaio qua è la prova vivente che, se si fa una cosa che si ama, si riesce a farla senza nessun aiuto. Non si sente quasi la fatica, non si sente il peso di avere tutto sulle proprie spalle. Si va solo avanti, mettendocela tutta e non essendo mai contenti per il risultato raggiunto.
È soprattutto questo che ho imparato da lui in due anni di conoscenza. E credo che sia la cosa più bella che potesse insegnarmi.

martedì 6 dicembre 2011

Piccola guida per navigatori distratti

Sempre più spesso navigando in rete mi capita di leggere strafalcioni che a volte mi fanno sorridere, a volte, non ve lo nascondo, indignare (purtroppo la mia anima da letterata snob che arriccia il naso fa capolino, qualche volta). Lasciando da parte gli errori grammaticali e/o di sintassi, che possono essere anche capiti, se si pensa che spesso uno "scrive come parla" e che la lingua parlata risponde a regole completamente diverse da quella scritta, quelli che proprio non sopporto sono gli errori nelle citazioni e nei modi di dire che di solito chi scrive butta là per apparire colto. Ebbene, come ho già detto tempo fa, meglio mostrare di non sapere una cosa, prima che saperla in modo superficiale e sbagliato. Ci si fa la figura di quelli presuntuosi e un po' ottusi. Ho pensato quindi che sarebbe utile una piccola guida per addentrarsi nella folta boscaglia delle citazioni e dei modi di dire, riportando qui di seguito quelli più famosi e altrettanto inesatti.
Partiamo da quello che probabilmente è il più conosciuto. Chi di voi non ha mai citato il famoso passo della Divina Commedia "Non ti curar di lor ma guarda e passa"? Sappiatelo, è sbagliato: nel III canto dell'Inferno, quello dedicato agli Ignavi, Virgilio dice a Dante "Non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
Sempre rimanendo in ambito dantesco, anche il verso del Purgatorio "È l'ora che volge al désio" è errato, poiché la versione originale sarebbe "Era già l'ora che volge al disìo ai navicanti, / e 'ntenerisce il core".
E fin qui le storpiature almeno non cambiano il senso della frase. Fa sorridere invece "Ahi l'amor, l'amore è un dardo", verso del Trovatore di Giuseppe Verdi, la cui versione corretta è "Ah! l'amor, l'amore ond'ardo!". In questo caso, oltre ad essere sbagliata, la citazione cambia anche completamente di significato.
La "Chiave di svolta" è uno strano miscuglio tra due modi di dire: la "chiave di volta", pietra centrale che chiude un arco, fondamentale per la sua stabilità, e "punto di svolta", momento in cui una situazione può prendere una piega inattesa.
Non è la "Lira di Dio", ma "L'ira di Dio", che era un castigo divino; non è "spezzare un'arancia" ma "spezzare una lancia", ovvero prendere le difese di qualcuno (detto che deriva dall'usanza degli antichi cavalieri che scendevano in campo per difendere l'onore di chi non poteva difendersi da solo, spesso una donna o un sovrano. A volte accadeva che durante il primo assalto la lancia si spezzasse contro la corazza degli avversari). Non si dice "partire con la lancia in testa" ma  "in resta", ovvero nell'apposita sede applicata in un angolo della corazza che aveva la funzione di far stare la lancia in equilibrio.
Presso la religione ebraica, nel giorno del Kippur (letteralmente "espiazione"), venivano condotti al tempio due capri, uno destinato a Dio e uno al Demonio. Il primo veniva immolato, il secondo abbandonato nel deserto dopo che il sacerdote gli aveva trasmesso tutti i peccati della comunità: da qui il detto "essere il capro espiatorio", ovvero la persona su cui vengono fatte ricadere tutte le colpe, e non "capo espiatorio".
Le prostitute non sono "d'alto borgo", ma "d'alto bordo": l'espressione, diventata di moda negli anni trenta, si riferisce al fatto che, durante i viaggi in nave, la cabine più belle e più costose, quelle in alto della prima classe, erano occupate da signorine mantenute dai ricchi amanti.
La gatta va "al lardo" a lasciare lo zampino e non "al largo": il detto vuol mettere in guardia colui che si appropria della roba non sua e che prima o poi verrà scoperto e nasce  da un altro detto popolare che è "andare dalla gatta per il lardo", ovvero rivolgersi a qualcuno che non ti concederà mai ciò che chiedi.
Non è "su di corda!" per incitare qualcuno a stare allegro, ma "sursum corda", ovvero "in alto i cuori", prefazione della Messa latina.
Non si dovrebbe dire "piantare in Asso", che non significa assolutamente nulla, ma "piantare in Nasso": l'espressione trae origine dalla mitologia greca, allorché Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro grazie all'aiuto della sorella del mostro, Ariadne, abbandonò la fanciulla, mentre dormiva, sull'isola di Nasso. 
Chiudo questa piccola raccolta con una citazione nata recentemente e che ho letto spesso: "L'italia è un paese bagnato da tre mari e prosciugato da Tremonti" , che si riferisce alle manovre particolarmente pesanti del nostro ex ministro dell'economia. Ebbene, la battuta, che potrebbe essere anche simpatica, diventa patetica se si pensa all'errore madornale in essa contenuto: l'Italia infatti è bagnata da quattro mari e non da tre (Ligure, Tirreno, Ionio e Adriatico) e citandola si fa davvero una brutta figura!

lunedì 5 dicembre 2011

Severamente vietato ai sani di mente

Oggi è una di quelle giornate in cui mi sembra di essere completamente insensibile a tutto ciò che mi circonda. Nessun interesse, nessun divertimento, nessun dolore. Credo sia una forma di protezione che mi sono creata, avendo passato recentemente un periodo piuttosto travagliato. Chiudo il mondo fuori dalla mia stanza, mi disinteresso a tutto ed a tutti, rispondo con gentilezza ma adeguato distacco a chi si rivolge a me per un consiglio, rido alle battute degli amici solo per educazione. In realtà, se qualcuno guardasse bene, vedrebbe che sto viaggiando col pilota automatico: la vera Michela in questo momento non è disponibile, si prega di riprovare più tardi.
Il problema è che ho una "maledizione" che mi perseguita da quando ero bambina: tranquillizzo la gente. Non so assolutamente come possa riuscirci, ma così è. Probabilmente perché non giudico, probabilmente perché non ho mai reazioni esagerate di fronte ai racconti degli amici (anche quelli più pruriginosi), forse perché ho un tono rassicurante o forse perché sembro sicura di me, sta di fatto che molti si rivolgono a me quando non sanno che fare e hanno bisogno di consolazione. E io sono sempre disponibile. Però...
Però ogni tanto mi capita di sentirmi sola. Essere la colonna a cui tutti si appoggiano è talora gratificante, ma a chi mi appoggio io nei momenti difficili? Ed ecco che l'unico modo che ho di tranquillizzarmi e di trovare un po' di serenità è quello di rinchiudermi nel mio piccolo mondo ovattato e stordirmi fino all'inverosimile con quella che ritengo la forma d'arte più pura e perfetta che esista al mondo: la poesia.
Come con qualsiasi altra forma d'arte, la poesia o la si ama alla follia o altrimenti si può imparare ad apprezzarla senza mai davvero sentirla dentro. Potrete leggere tutti i romanzi del mondo, andare in estasi per le trame, per l'uso che l'autore fa del lessico, per l'originalità con cui costruisce il periodo, ma mai niente vi farà sentire più completi, più in pace con il mondo, più sereni con voi stessi come, per fare solo un esempio, "Mattino" di Ungaretti: "M'illumino d'immenso".
Forse avrete sentito parlare dell' "Umami". In lingua giapponese vuol dire "saporito" e corrisponde al cosiddetto quinto gusto, dopo dolce, aspro, salato e amaro. Quando assaporate qualcosa che sia assolutamente delizioso (una pesca appena colta dall'albero, un formaggio cremoso che si scioglie in bocca, una salsa ricca), il sapore che sentite e che vi lascia quella sensazione di soddisfazione per aver mangiato qualcosa di perfetto, ecco, quello è l'Umami.
Per me la poesia è l'Umami della letteratura.
Fin da bambina piangevo per la morte di Silvia, mi domandavo insistentemente quale nome avesse fatto nitrire la cavalla storna, mi chiedevo cosa avesse provato la spigolatrice a veder morire il ragazzo dagli occhi blu e dai capelli d'oro, mi veniva voglia di abbracciare un cipressetto...
Leggere una poesia è come entrare in un microcosmo, è conoscere una storia a volte leggendo solo due parole, è un cerchio perfetto che si chiude in un attimo e ti lascia con il pensiero "non ci sono altre parole per dirlo meglio!", è una folgorazione. Per me è un ponte verso quella sensazione di sollievo dai troppi pensieri che spesso mi assillano e mi mettono ansia. È la colonna alla quale mi appoggio io.
Probabilmente molti di voi considereranno questo post come il vaneggiamento di una pazza in depressione, ma Goethe diceva "tutti gli uomini fuori dal comune che hanno compiuto grandi cose (...) sono stati in ogni tempo considerati ubriachi o pazzi". E mica vorrete contraddire Goethe?

domenica 4 dicembre 2011

La dura vita di una fashion-victim!

In questo periodo di shopping pre natalizio mi capita spesso di girare per negozi e centri commerciali, e quel che vedo mi lascia basita! Pare che quest'anno se non ti procurerai gli stivali pitonati, un cappello stravagante, un qualsiasi capo di vestiario a pois, un cappotto col pelo e, soprattutto, tantissima roba glitterata non sarai nessuno. Mi rendo conto che il lavoro degli stilisti è quello di cercare cose nuove e/o reinterpretare quelle del passato in modo originale, ma davvero pensano che una ragazza possa andare vestita come Buffalo Bill con la borsina e le scarpe tacco 12 glitterate? Eppure vedo nelle vetrine proprio questa roba e, sempre, mi domando: ma chi è che la compra?
La verità è che fare shopping in questa selva selvaggia di cattivo gusto è diventata una mission impossible, un po' per i prezzi esorbitanti (maglioncini col 30% di lana a 220 euro, jeans con qualche ricamo a 180 sono considerati roba di "medio prezzo"), un po' perché è davvero quasi impossibile andare in giro per le boutique che vendano roba griffata e trovare qualcosa che la ragazza media con cellulite e cuscinetti e/o con un'altezza che non raggiunga il metro e 80 possa mettere senza apparire ridicola se non addirittura patetica. Innanzitutto: sono anni che gli stilisti dicono basta alla vita bassa e poi, invece, ci ricadono ogni anno, con il risultato che, anche l'altro giorno, mi son trovata al supermercato con il culo in bella vista della signora cinquantenne che era in fila davanti a me alla cassa. Vorrei essere libera di decidere se, come e quando guardare il culo alla gente e non trovarmelo sotto il naso in ogni luogo. Specie se non è propriamente un culo brasiliano.
I leggings, che negli anni '80 si chiamavano fuseaux e nei '90 pantacollant, sono in pratica delle calze un po' più pesanti. Ok coi vestitini a maglia. Ma 'sti vestitini dovrebbero arrivare ALMENO a metà coscia, altrimenti l'effetto è: ma quella si è dimenticata di mettere i pantaloni??
I cosiddetti skinny jeans sono molto carini, me ne rendo conto. Tuttavia, se per riuscire a chiudere la cerniera dovete stendervi sul letto, imparare il metodo di respirazione durante il travaglio, fare un clistere e, una volta in piedi, evitare di respirare, forse il jeans skinny non è esattamente il taglio che fa per voi. Anche perché poi il rischio è quello di assomigliare più al culatello di Zibello DOP appeso in drogheria che a una donna (e grazie al cielo, almeno le calze a rete non sono più di moda!).
Una cosa che mi domando da almeno tre anni è perché i maglioncini non abbiano più le maniche. Sono aumentati i prezzi, ma è diminuito il materiale. Una delle grandi certezze della vita era proprio questa: d'estate si trovavano magliette con le maniche corte, d'inverno maglioncini a maniche lunghe. E invece no. Uno stilista, probabilmente una donna in menopausa e con le vampate, ha deciso che anche d'inverno dovevamo portare le braccia scoperte. Risultato: vi comprate il maglioncino e poi, a parte, le maniche (scaldamuscoli, che prima si chiamavano manicotti) che potete togliere e mettere quando vi pare. In pratica, spendete di più per avere un maglioncino intero. Io rivendico il diritto di avere la maniche comprese nel prezzo!
Parliamo delle scarpe? Ok, parliamone: è sparito il tacco medio. O rasoterra o sui trampoli. E se è vero che le ballerine non slanciano, i tacchi vertiginosi fanno spesso camminare come Robocop. Ho visto donne rischiare la vita sui tacchi a stiletto che si piegavano a ogni passo, donne che saltellavano dietro al marito con smorfie di dolore stampate in volto, donne con le piaghe sui talloni, donne con le caviglie distrutte... povere donne che avrebbero chiesto di poter avere solo un paio di scarpe con un misero, tranquillo, semplice tacco medio senza sembrare le loro nonne.
Di fronte a tutto ciò, l'unica cosa che si deve sempre ricordare è che non è la roba che portate a darvi personalità, ma esattamente il contrario. Liberate la mente, liberate la fantasia, prendete spunti da ciò che vedete sui giornali e nelle vetrine, ma poi createvi il vostro stile, senza paura di mescolare, azzardare, inventare. Gli stilisti non sono i nuovi filosofi, non sono i nuovi Guru, non sono divinità. Sono solo persone che disegnano abiti ed è probabile che, fra i tanti modelli disegnati, ci sia quello che fa al caso vostro: ci vuole solo un po' di pazienza nel trovarlo. E poi reinventarlo seguendo il vostro gusto! Buona ricerca a tutte!

sabato 3 dicembre 2011

Ode al trombamico

C'è una figura che ogni donna vorrebbe avere
ma che purtroppo è difficile da trovare:
uno con cui scherzare ridere e giocare
senza di mezzo sentimenti che fan penare;
uno che non pretende nulla e non fa domande,
pensa solo a come entrarti nelle mutande,
niente gelosia, niente fraintendimenti,
nessuna litigata col coltello in mezzo ai denti.
Se si ammala non devi stargli accanto,
nemmeno consolarlo se lo vedi affranto,
non gli stiri le camice e i pantaloni
non gli cucini lasagne o tortelloni.
Se ti parla di sport non devi ascoltarlo
se ha problemi di autostima non devi adorarlo,
se si lamenta perché gli fa male la testa
non devi far finta di esser triste e mesta.
Nessuna domenica pomeriggio allo stadio
nessun viaggio in cui parla solo l'autoradio,
non gli prepari la biancheria sul letto
non devi esaudire i suoi sogni nel cassetto,
non devi correre se ti chiama in piena notte
a meno che non sia perché ti... (ok, qui diventerò scurrile, ma è una licenza poetica che mi dovete concedere, chiedo venia a tutti coloro che mi pensavano una ragazza perbenino che non dice le parolacce, ma quando ce vo' ce vo', e poi è per esigenza di rima!) ... fotte!
Insomma ho detto spesso e volentieri ridico
che la cosa migliore sarebbe il trombamico!

Tanto per non passare per quella che parla solo di poesia impegnata! Anch'io cazzeggio, ogni tanto... ogni spesso... ;)

venerdì 2 dicembre 2011

il mondo che esce dalle serrature malchiuse

Succede a volte che passi una mattina in un giardinetto anonimo alle porte della città e ti trovi davanti a uno spettacolo che ti riempie il cuore. Magari quello è un giardinetto che hai visto mille altre volte, magari i palazzi intorno sono grigi e anonimi,  magari lì vicino ci sono i parcheggi dei centri commerciali. Eppure, in qualche modo, la bellezza della natura riesce ad essere più forte e a sovrastare l'urbanizzazione e la vita frenetica. Scriveva Montale ne "I Limoni":

"...ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi;
s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa..." 



Ecco, stamattina mi è successa una cosa simile. Passando davanti a un giardinetto come ce ne sono a milioni, quello che mi sono trovata davanti è stato questo




C'erano soffi di luce accecanti, c'era una leggera brezza che faceva cadere le foglie quasi fossero fiocchi di neve e faceva decisamente caldo per essere il 2 Dicembre. Non ho resistito alla tentazione di scattare una foto con il cellulare per catturare un po' di quella luce. Di fronte a uno spettacolo del genere, non si può rimanere arrabbiati o tristi o nervosi. È come se una serratura malchiusa si fosse aperta di colpo e avesse rivelato per un istante la vera essenza del mondo che ci circonda, che non è nato con le case, il cemento e le auto (quelle sono solo invenzioni umane che siamo talmente abituati a vedere da sembrarci naturali) ma che è soprattutto alberi, cielo, colori e luci. Ho dato una sbirciatina dentro quella serratura, stamani, e ho cercato di catturare ciò che ho visto per condividerlo con voi.

Gabriel García Márquez, "Lettera d'addio"

"Se Dio, per un istante, dimenticasse che sono un pupazzetto di stoffa e mi donasse un pezzo di vita, probabilmente non direi tutto quello che penso, ma in fin dei conti, penserei tutto quello che dico.
Darei valore alle cose non per quanto valgono, ma per quello che esprimono .
Dormirei poco, sognerei di più, capendo che per ogni minuto in cui chiudiamo gli occhi perdiamo sessanta secondi di luce.
Andrei quando gli altri si fermano, mi risveglierei quando gli altri si coricano.
Ascolterei quando gli altri parlano e… come saprei godermi un buon gelato al cioccolato!
Se Dio mi facesse dono di un ritaglio di vita vestirei senza fronzoli, mi butterei di pancia al sole, lasciando scoperto non solo il mio corpo, ma pure la mia anima.
Dio mio, se io avessi un cuore, scriverei il mio odio sul ghiaccio e attenderei così l’arrivo del sole.
Dipingerei con un sogno di Van Gogh, sulle stelle, una poesia di Benedetti; e una canzone di Serrat sarebbe la serenata che offrirei alla luna.
Annaffierei con le mie lacrime le rose, per sentire il dolore delle loro spine, e l’incarnato bacio di quei petali…
Dio mio, se io avessi uno scampolo di vita…
Non lascerei passare un solo giorno senza dire alla gente che amo che la amo. Ad ogni donna e ad ogni uomo farei capire che sono loro i miei prescelti e vivrei innamorato dell’amore.
Agli uomini dimostrerei che sbagliano quando pensano che uno smette di innamorarsi perché invecchia, ignorando che uno invecchia proprio perché ha smesso di innamorarsi!
A un bambino darei le ali, ma lascerei che da solo imparasse a volare.
Ai vecchi insegnerei che la morte non è fatta di vecchiaia, ma di oblio.
Tante cose ho imparato, da voi uomini…
Ho imparato che tutti quanti vogliono vivere sulla cima della montagna, senza capire che la vera felicità sta nel modo di salire quel pendio.
Ho imparato che quando un neonato afferra col suo piccolo pugno, per la prima volta, il dito di suo padre, lo fa per sempre.
Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare un altro uomo dall’alto in basso soltanto quando si appresta ad aiutarlo a rialzarsi.
Sono tante le cose che ho potuto imparare da voi, ma in verità a poco mi serviranno, perché quando mi metteranno dentro quella valigia starò, infelicemente, già morendo.
Di' sempre quel che senti e fa' quello che pensi.
Se sapessi che oggi è l’ultima volta che ti vedrò dormire, ti abbraccerei forte e chiederei al Signore di poter essere il guardiano della tua anima.
Se sapessi che è questa l’ultima volta che ti vedrò uscire da quella porta, ti darei un abbraccio, un bacio e ti chiamerei poi indietro per continuare a darteli.
Se sapessi che questa è l’ultima volta che sentirò la tua voce, registrerei ognuna delle tue parole per poter ascoltarle una e un’altra volta, all’infinito.
Se sapessi che sono questi gli ultimi minuti che mi restano per guardarti, ti direi “ti amo”, senza pensare, scioccamente, che tu lo sai da sempre.
C’è sempre un domani e la vita di solito ci offre la possibilità di rifare ogni cosa per bene, ma se mi sbagliassi e l’oggi fosse tutto quanto ci rimane, mi piacerebbe dirti questo, che ti amo, e che non mi riuscirà di dimenticarti.
Nessuno, vecchio o giovane, ha il domani assicurato. Oggi potrebbe essere l’ultima volta che vedi coloro che contano per te.
Per questo non aspettare, fallo ora , perchè se quel domani infine non arriva, rimpiangerai il giorno in cui non trovasti il tempo di un sorriso, un abbraccio, un bacio; troppo occupato per concedere alla vita la sua ultima grazia.
Tieni coloro che ami vicino al cuore, sussurragli all’orecchio che hai bisogno di loro, amali, trattali bene, e trova del tempo per dire “mi dispiace”, “scusami”, “ per favore”, “grazie” , voglio dire, tutte quelle parole d’amore che hai in grembo.
Nessuno ti ricorderà per i tuoi pensieri segreti. Chiedi la forza e la saggezza per esprimerli. Dimostra ai tuoi amici quanto tieni a loro."


Non aggiungo nulla di mio, perché la perfezione non ha bisogno di ulteriori parole. Scendono copiose le lacrime.

giovedì 1 dicembre 2011

Un sorriso per il malumore

Stamattina ho ritirato la posta di mio padre e fra la varie bollette da pagare ho trovato l'immancabile lettera di auguri della S.MI.PAR (Scuola Militare di Paracadutismo), in cui venivamo invitati tutti alla festa del 15 Dicembre durante la quale "ci sarà un buffet e verranno consegnati i doni ai figli del personale in servizio". Ah, i bei tempi in cui anch'io facevo parte di quella schiera di bambinetti impazienti di ricevere il regalo... (poi hanno smesso di farmelo quando hanno capito che avevo raggiunto un'età in cui ero più interessata al militare che me lo consegnava che al regalo stesso). Ho conosciuto il mio primo "pretendente" proprio durante una di quelle feste lì. Si chiamava Dario, era figlio di un colonnello e aveva un anno più di me. Ogni anno ci vedevamo durante la festa dello scambio dei regali e non osavamo scambiare più di qualche parolina.
Poi, al compimento del mio dodicesimo anno, i miei genitori decisero che era giunto per me il momento di partecipare non solo alla festa di Natale, ma anche al famigerato Cenone di fine Anno che si teneva sempre nel salone delle feste del circolo Ufficiali.
Il circolo Ufficiali era quello per le feste importanti, quello dei Sottufficiali era per le feste informali;  io ero solita frequentare quest'ultimo, essendo figlia di un maresciallo, ma sentivo spesso parlare della mitica festa che si teneva nell'altro salone, ed ero davvero impaziente di parteciparvi. Immaginavo le donne con abiti lunghi e scintillanti e gli uomini in alta uniforme, immaginavo camerieri in livrea e guanti bianchi, vassoi ricolmi di prelibatezze e valzer viennesi. Ok, ero forse un tantinello influenzata da Cenerentola, ma vi assicuro che le mie fantasie si limitavano a questo e non parlavo coi topolini e gli uccellini.
In ogni caso, la sera del Cenone ero elettrizzata: mia madre mi aveva vestito come una bambola, con un vestitino di velluto blu notte, con la gonna svasata e il bordino di raso, e le scarpine di vernice. Avevo i capelli raccolti in una treccia tenuta ferma da un  fiocco di raso e l'immancabile frangetta sugli occhi.
Non nascondo di aver provato una certa delusione nel vedere che gli ospiti erano vestiti come in una qualsiasi altra festa di Capodanno un po' elegante: smoking per gli uomini e  normali vestiti da sera per le donne. Non c'erano abiti con i "sei metri di velo colore del cielo" e i camerieri avevano la camicia bianca a i pantaloni neri. Niente guanti bianchi. Tuttavia mi divertii.
Ovviamente a quella festa c'era anche lui, Dario. Rimanemmo per buona parte della cena a guardarci di soppiatto, a distanza. Lui mi sorrideva, io arrossivo. Allo scoccare della mezzanotte lui si alzò, si aggiustò un po' la camicia e il cravattino e mi venne incontro con un'espressione che, secondo me, si era studiato allo specchio per giorni e giorni (un misto tra Jhon Travolta e James Dean) e mi chiese con voce impostata "Vuoi ballare?", porgendomi la mano. Pensavo che avrebbe detto anche "Nessuno può mettere Michela in un angolo!", ma per fortuna non lo fece.
Mi alzai senza avere la minima idea di cosa volesse dire "ballare" (in realtà non ce l'ho nemmeno adesso che son passati 20 anni) e mi aggrappai tutta rossa al suo braccio. Muovemmo goffamente qualche passo, poi lui mi chiese di uscire in giardino, e anche se faceva freddo accettai. Passammo quindi tutta la restante serata a chiacchierare imbarazzati seduti sul bordo di una fontana raffigurante la Venere del Botticelli e alla fine ci scambiammo un timidissimo bacino a fior di labbra.
Ovviamente dopo quella sera non l'ho mai più rivisto, fino a qualche mese fa, quando, intenta a guardare una Barbie in un centro commerciale (potrei dire che volevo regalarla alla figlia di un'amica, ma in realtà la stavo guardando affascinata pensando di comprarla per me) mi si è avvicinato uno sconosciuto chiamandomi per nome. Panico. Chi è sto tizio? Ora che faccio? Sorrido e faccio finta di riconoscerlo, ovvio. Poi lui ha detto una cosa per la quale gli avrei gettato le braccia al collo e urlato "fammi tua direttamente nella corsia dei surgelati!". Mi ha detto: "Non sei cambiata per niente da quella festa di Capodanno!". E lì ho capito chi fosse. Le solite due parole di circostanza e ci siamo salutati. Ma il sorriso che mi ha regalato quel giorno, nel ricordarmi una serata in cui mi sono sentita davvero come una principessa delle favole, me lo tengo da parte tutt'ora per quando ho bisogno di qualcosa che sia a portata di mano e veloce nel farmi passare il malumore, come una pasticca per il mal di testa che ti tieni sempre nella borsa.