lunedì 30 aprile 2012

La filosofia della Bimbaminkia

Ultimamente mi sono ritrovata a dover spiegare a una ragazzina che sta studiando per la maturità "La coscienza di Zeno" di Italo Svevo. Per riuscire a farlo, ho dovuto mettere da parte, cercando proprio di sotterrarla sotto metri e metri di pazienza e comprensione, la mia naturale propensione ad irritarmi quando mi trovo a dover spiegare un concetto per più di due volte. D'altra parte, sono stata cresciuta con una regola aurea: le cose si capiscono alla prima, alla seconda quelle proprio difficili, se arrivi alla terza sei scema.
Mi rendo conto che questa concezione potrebbe risultare un tantinello drastica, ma è proprio grazie a questo "addestramento" se sono riuscita a diventare svegliotta quel tanto che bastava per non dover studiare per più di mezz'ora ogni due giorni al liceo, e per riuscire a studiare duemila (duemilacentoventuno, per l'esattezza) pagine di Storia dell'Arte all'università in tredici giorni e mezzo (e per quel "mezzo" intendo la mattina stessa dell'esame, in cui ho ripassato tutto, insieme ad un'amica, in un affollatissimo bar con tanto di juke-box, prendendo poi 27 all'esame).  Questo tanto per fare due esempi. Non è che sia mai stata un genio, è che non avevo tempo da perdere sui libri e quindi tendevo a non voler leggere due volte la stessa cosa, a meno che non fosse proprio difficilissima. E qui si ritorna alla regola aurea.
Con questa studentessa, invece, ho scoperto il (fastidiosissimo) metodo del "ripeti fino allo sfinimento", per cui ogni volta che devo fare lezione mi concedo mezz'ora di training autogeno, concentrandomi sulla respirazione manco fossi una partoriente, ripetendomi come un mantra "sii paziente, ce la puoi fare".
Immaginatevi dunque la mia agitazione oggi, sapendo che, parlando appunto di Svevo, avrei dovuto spiegare alla mia svogliatissima alunna la filosofia di Schopenhauer. Avete presente, no, Schopenhauer: il pessimismo, l'amore che è solo una maschera per celare il desiderio sessuale e l'accoppiamento, il suicidio come via di fuga, la cessazione del dolore che si ha solo quando si smette di desiderare... e via discorrendo.
Ero nel panico. Invece, con mia grande sorpresa, la fanciulla ha capito alla prima. Mi sarei già accontentata alla quinta. Invece no, alla prima!
Lì per lì sono rimasta quasi sconcertata. Dopodiché ho capito: chi mai potrebbe comprendere Schopenhauer meglio di un'adolescente perennemente innamorata e perennemente delusa, che passa il suo tempo a ricevere sms disperati dalle amiche che vengono lasciate dai ragazzi crudeli e alle quali lei poi telefona altrettanto disperata, quando l'ennesimo amorino le ha rifilato una fregatura? Chi mai potrebbe capire che "smettere di desiderare una cosa è il modo migliore per smettere di soffrire", chi, se non una ragazzina che soffre ogni giorno in balìa di desideri mutevoli come il mese di Marzo?
La domanda che però nasce spontanea è: ma Schopenhauer era una bimbaminkia?

domenica 29 aprile 2012

Guardare e non toccare!

In questo periodo non esattamente felicissimo per me, ho riscoperto il piacere di spupazzarmi la mia chowchowina, Mei Li.
Lei non è proprio felice di questo (preferirebbe essere lasciata stare e al massimo salutata con stima e rispetto), ma essendo fondamentalmente buonissima si lascia fare di tutto limitandosi a grugnire in segno di disapprovazione (ebbene sì, fa il verso di un maialino... sarà per questo che i cinesi se la mangiano, questa razza?).
Il 25 Aprile l'ho portata in giro con me, in un centro molto affollato, per sfoggiarla e per farmi sentir dire da tutti i passanti "ohhh che beeellaaa!". Ok, dai, animalisti: adesso potete arricciare il nasino ed esclamare a gran voce "oh, ma lo vedi che sei solo una superficiale? Il cane va amato, non sfoggiato!". Dite tutto quel che volete, ma io ho un bel cane e, oltre ad amarlo alla follia, lo sfoggio pure! Tiè!
È stata una gioia poi vedere i bambini, anche piccolissimi, che si sporgevano dal passeggino per cercare di toccarle il pelo o le orecchie e sentire che la salutavano con "ciao leone!!!" . E allora ho pensato che la natura, a volte, è davvero cattiva: come si può, infatti, progettare cani così belli e così "coccolosi" e poi dare loro un carattere difficile che li rende avversi alle coccole? Perché con la Mei Li sono stata fortunata: pur essendo refrattaria alle carezze, non si ribella e le accetta rassegnata. Ma i VERI Chow, quelli con la C maiuscola, alla seconda carezza del padrone si scostano e, soprattutto, non accettano carezze da altre persone. Punto. Non ringhiano, non abbaiano. Si limitano a guardarti con la coda dell'occhio, cercando di calcolare il momento esatto in cui la tua mano arriverà a portata della loro bocca.
In questo la natura è stata davvero crudele. Provateci voi a non allungare la manine di fronte a questa meraviglia...



sabato 28 aprile 2012

In cosa posso esserle utile?

Oh ma insomma, queste commesse de "La Rinascente" di Firenze... e si lamentano della spilletta a doppio senso, e si lamentano che devono portare i tacchi alti e "coccolare" i clienti... ma che ci sono andate a fare, mi chiedo, a lavorare in un posto del genere?
Ma partiamo dall'inizio: circa venti giorni fa è scoppiato il "caso" a "La Rinascente" di Firenze perché le commesse erano costrette a portare una spilletta appuntata sugli abiti con la scritta "Facile averla, chiedimi come". La frase si riferiva alla card riservata ai clienti abituali, ma il doppio senso è evidente. Le commesse si sono lamentate del fatto che i clienti, quelli di sesso maschile, facevano loro apprezzamenti piuttosto pesanti, soprattutto nei giorni in cui, accanto alla spilletta incriminata, ne compariva un'altra con la scritta "tvb". Quelli erano i giorni dedicati alle "coccole" ai clienti: consigli di stile, trucco e moda impartiti dalle simpatiche e sorridenti commesse in minigonna e tacchi alti.
"Così facciamo passare il messaggio che tutto è in vendita, anche le persone! Non è giusto, siamo oggetto di scherno e battute pesanti!" hanno protestato le signorine. Il bello è, però, che a lamentarsi sono state solo le commesse che lavorano a Firenze, ma la spilletta dovevano portarla tutte le commesse di ogni punto vendita "La Rinascente" presente in Italia. Al che la domanda nasce spontanea: sono i clienti fiorentini ad essere particolarmente maliziosi o sono le commesse fiorentine ad essere eccessivamente permalose?
Sono stata a "La Rinascente" di Firenze poco più di un mese fa e ho comprato un capo di biancheria intima. Ebbene, la ragazza che me l'ha venduto sembrava uscita da una sfilata: trucco curato e non leggero, scollatura vertiginosa, tacchi alti. Era bella, ovviamente. E le altre commesse non erano da meno. Quello che voglio dire è che ogni dettaglio era stato studaito appositamente perché le commesse venissero guardate. Ora, mi domando una cosa: queste signorine sono consapevoli che, quando vengono scelte per andare a lavorare in un posto del genere, non vengono selezionate per il loro cervello, né per le loro capacità nella vendita (mille volte mi sono trovata, in questo tipo di negozi, con una ragazzina dal bel musino che non aveva idea di cosa fosse presente nel magazzino, non sapeva come soddisfare le mie richieste e si preoccupava soltanto che non le sbavasse il rossetto)? Sono consapevoli, queste belle fanciulle, che nel momento stesso in cui accettano di essere selezionate per la loro avvenenza e accettano di recarsi al lavoro vestite come bambole, poi saranno trattate esattamente come tali? La spilletta sarebbe totalmente inefficace se non accompagnata da tutto il resto. Provate a farla indossare ad una bruttina, scialba e struccata e vediamo se sortirà il medesimo effetto. Siamo di fronte alla mercificazione della donna? Certo che sì. È giusto? Probabilmente no. Tuttavia mi stupisco che questa protesta provenga proprio da chi, prima, accetta di buon grado la tendenza a considerare la donna come merce e poi, un bel mattino, si accorge che, nel momento in cui il cliente entra nel negozio, ciò che paga non è solo la roba che compra ma anche la bellezza, la sensualità di chi gliela vende.
Sarebbe come fare di tutto per entrare nell'esercito e poi lamentarsi perché ti mettono un fucile in mano e ti dicono di sparare.
L'idea della spilletta può anche essere di cattivo gusto, ma per favore nessuno si scandalizzi! Se un cliente fa una battuta pesante, basta sorridere, rispondere a tono e ricordarsi che si è state assunte proprio per attirare i clienti, anche dal punto di vista sessuale e che una battuta, per quanto pesante, rimane una battuta. Nessuna sarà molestata pesantemente in un grande magazzino pieno di gente e con gli addetti alla sicurezza pronti ad intervenire.
Altrimenti c'è un'alternativa: una bella "obiezione di coscienza". Basta smettere di scendere a compromessi, basta rifiutarsi di essere selezionate per la propria bellezza e non presentarsi più ai colloqui e al lavoro vestite come conigliette di Playboy.

Giovanni Pascoli, Per Sempre

Io t'odio?!... Non t'amo più, vedi,
non t'amo... Ricordi quel giorno?
Lontano portavano i piedi
un cuor che pensava al ritorno.
E dunque tornai... tu non c'eri.
Per casa era un'eco dell'ieri,
d'un lungo promettere. E meco
di te portai sola quell'eco:                                    

                                   PER SEMPRE!

Non t'odio. Ma l'eco sommessa
di quella infinita promessa
vien meco, e mi batte nel cuore
col palpito trito dell'ore;
mi strilla nel cuore col grido
d'implume caduto dal nido:
                                   PER SEMPRE! 


Non t'amo. Io guardai, col sorriso,
nel fiore del molle tuo letto.
Ha tutti i tuoi occhi, ma il viso...
non tuo. E baciai quel visetto
straniero, senz'urto alle vene.
Le dissi: "E a me, mi vuoi bene?"
"Sì, tanto!" E i tuoi occhi in me fisse.
"Per sempre?" le dissi. Mi disse:
                                  "PER SEMPRE!"


Risposi: "Sei bimba e non sai
Per sempre che voglia dir mai!"
Rispose: "Non so che vuol dire?
Per sempre vuol dire Morire...
Sì: addormentarsi la sera:
restare così come s'era,
                                   PER SEMPRE!"


Tratto da "I Canti di Castelvecchio". Pubblicata la prima volta sul "Marzocco" il 19 Giugno 1898.

martedì 24 aprile 2012

Per tutte quelle che... "mi avevi già convinta al ciao"

Vi scrivo mentre alla tv, su Rai Movie, trasmettono quel meraviglioso film che è "Jerry Maguire". E ancora una volta torno a parlare di un film con Tom Cruise. Certo, non posso dire di averlo mai davvero considerato il mio attore preferito, anche perché non mi piacciono le cose assolutistiche, ma è certamente l'attore di cui ho visto più film.
E questo è uno di quelli che preferisco, fondamentalmente per tre motivi: prima di tutto perché invece che di un eroe parla di un uomo normale, che sa anche sbagliare, che ha delle debolezze, che ha una parte cinica e anche meschina. In secondo luogo perché almeno due o tre battute di questo film meritano una menzione d'onore (e non è facile di questi tempi trovare un film i cui dialoghi possano essere ricordati). Infine, perchè la scena finale è una delle migliori in assoluto e, come scrivevo qualche mese fa sempre su questo blog, le scene finali sono fondamentali per la buona riuscita di un film.
La storia è divertente: Jerry Maguire è un procuratore sportivo, anzi sarebbe meglio dire IL procuratore sportivo per eccellenza, una vera leggenda nell'ambiente dei procuratori, uno squalo. La sua è una vita da vincente, nonostante alcuni aspetti del suo lavoro non gli piacciano affatto. E quindi un bel giorno, proprio mentre insieme a tutti i suoi colleghi si trova ad un convegno, la sua coscienza si risveglia e, durante la notte, decide di scrivere una delirante relazione programmatica "non un promemoria", come Jerry tiene a specificare sempre, in cui espone una teoria interessante: perché i procuratori devono pensare solo ai soldi e non anche alle persone che rappresentano? Ci vorrebbero meno clienti e più umanità.
Questa folle relazione programmatica finisce nelle mani di tutti i suoi colleghi, compresi i suoi capi, che nel giro di due giorni decidono di licenziarlo in tronco. E così Jerry si ritrova da solo, con un solo unico cliente, un giocatore di football (interpretato da un fantastico Cuba Gooding Jr, che per questo film vinse l'Oscar nel 1997 come migliore attore non protagonista) che non riesce a sfondare, e con un'assistente, Dorothy (Renée Zellweger) una timida segretaria dell'ufficio in cui lavorava che decide di seguirlo. Va da sè che tra i due scatterà la famosa scintilla. Lui le chiederà di sposarlo. Lei, vedova e con un adorabile figlio piccolo, accetterà. Dopodiché mentre Jerry cercherà di seguire il suo cliente per riuscire a farlo sfondare, Dorothy si renderà conto che nel matrimonio lui è completamente assente, che è solo lei "ad amare per tutti e due" e lo lascerà.
Ma alla fine, mentre finalmente la sua vita lavorativa riprenderà il volo, Jerry si renderà conto che senza di lei non può vivere e tornerà da Dorothy per pregarla di ritornare insieme. Ed ecco la scena finale: la trova una sera a casa della sorella, mentre sta cenando con altre amiche, ed entra in casa sparando il discorso che si era preparato, cercando frasi ad effetto, sperando di convincerla. Ed a quel punto lei lo interrompe anche bruscamente e gli dice ciò che ogni donna, ogni donna a questo mondo, direbbe in una situazione del genere: "Smettila, sta' zitto! Mi avevi già convinta al ciao!". Non "smettila, mi hai stufata!", non "sei un bastardo". No. Mi avevi convinta al ciao. Così, semplicemente. Mi avevi convinta al ciao. Cosa c'è di più commovente?


sabato 21 aprile 2012

Pensieri sott'odio

In questi giorni mi è capitato di leggere su facebook uno di quei link buonisti fatti per portare il buonumore ed il sorriso alla gente, ma che di solito a me fanno l'effetto contrario. Si intitolava "Sette belle logiche":
1. "Fai pace col tuo passato, così non rovinerà il tuo presente." Quale passato? Quello remoto o quello prossimo? O l'imperfetto, che in quanto imperfetto è appunto non ben precisato? Fai pace. Che vuol dire? Dimentica? Giammai. Dimenticare vuol dire ripetere all'infinito gli stessi errori. Forse può voler dire "elabora". Eh, ma per elaborare ci vuole tempo. Quale tempo? il Futuro. E quindi il presente è comunque fottuto. Forse sarebbe stato più giusto dire allora "Elabora il tuo passato così ti garantirai un futuro più sereno". In ogni caso, la banalità di questa frase è oltremodo fastidiosa.
2. "Quello che gli altri pensano di te non ti riguarda". Ed è già assurdo che uno lo scriva su Facebook. Quello che gli altri pensano, non mi riguarda. Quello che pensano di me, forse, un po' mi riguarda. Mai sentito parlare di "reputazione"? Viviamo in un mondo basato principalmente su quella e, a meno che uno non voglia mentire a se stesso e agli altri, non c'è nessuno, nessuno che sia in vita, che se ne freghi del giudizio altrui. Posso rinchiudermi in una stanza a ripetermi quanto sono simpatica e carina, ma poi se nessuno mi invita ad uscire, la cosa un po' mi riguarda. E, magari, il chiedersi il perché è un buon primo passo verso un miglioramento. Quindi, sarebbe stato meglio dire "Chiediti perché gli altri hanno una visione di te che non corrisponde alla tua".
3. "Il tempo guarisce quasi tutto. Dai tempo al tempo". È quel "quasi" che ti frega. E se io che sto leggendo faccio parte di quel "quasi" che non viene guarito che faccio? Mi ammazzo? Un sudicio link che istiga al suicidio. Meglio dire "Ci sono cose che non passano, fattene una ragione".
4. "Nessuno è la ragione della tua felicità, eccetto te stesso". Che cosa ridicola. Come se fosse un problema trovare qualcuno che sia fonte della nostra felicità. Casomai il problema si presenta quando troviamo qualcuno che diventi fonte delle nostre sofferenze. E hai voglia di dire "non devi permettere che ciò accada". Accade comunque. Poi si hanno due strade: o fregarsene e diventare frustrati, o vivere le sofferenze fino in fondo e vedere di riuscire a digerirle, col tempo. E qui si ritorna al punto 3.
5. "Non paragonare la tua vita a quella degli altri, non hai idea di cosa sia fatto il loro viaggio." E qui posso anche essere d'accordo, anche se bastava un più semplice (scusate il francesismo): "Fatti i cazzi tuoi!". La cosa però deve essere nei due sensi, perché anche gli altri non hanno idea di cosa sia fatto il MIO viaggio. E quindi, forse, sarebbe ancora meglio un (ariscusate il francesismo): "Facciamoci tutti i cazzi nostri!".
6. "Smettila di pensare troppo, va bene non sapere tutte le risposte". Questa deve averla scritta un/una liceale, ne ho in mente giusto un paio... Va bene, dai, non pensiamo troppo e cerchiamo di sapere le risposte almeno per arrivare ad un 6 scarso e dopo "SI VA TT AL PUB X UNA BEVUTA KE FIGATA!!!" È così che, per ritornare al punto 4, sarò la ragione della mia felicità: la felicità si raggiunge attraverso l'ignoranza. È per questo che è beata. No?
7. "Sorridi, non possiedi tutti i problemi del mondo". Ma sì, dai! Sorridiamo del fatto che qualcuno sta peggio di noi. Voglio dire, un malato terminale che ha una villa con piscina deve proprio sorridere perché al mondo ci sono malati terminali senzatetto. Anche a me verrebbe da ridere al solo pensiero. A voi no? Eh, ma siete proprio dei musoni...

mercoledì 18 aprile 2012

Separati dal destino

Stamattina mi sono svegliata con una bella, bellissima, sorpresa. Sono una lettrice accanita di Vanity Fair, l'unico giornale cosiddetto "femminile" che valga la pena, a mio avviso, di essere letto in Italia; vuoi per i servizi accurati, vuoi per l'ampia gamma di argomenti trattati (si va dal cinema alla moda, dal gossip alla politica, dai servizi di denuncia alla letteratura e all'arte)... insomma, mi sento male se non riesco a leggere ogni settimana quella rivista. Il mio più grande sogno nel cassetto è quello di collaborare con Vanity. Quando dico a una persona che "dovrebbe finire sulla copertina di Vanity" le sto facendo il più grosso complimento che potrei farle!
E stamattina chi ci trovo in copertina? Alessandro. Del. Piero. L'uomo dei miei sogni. Appena quattro giorni fa parlavo di lui su questo blog e ora finisce sulla copertina della MIA rivista. E la lista delle coincidenze che mi legano a quest'uomo si allunga. L'ultima era stata la piacevole sopresa di sapere che il suo primogenito fosse nato nel mio stesso giorno di nascita. Potrei fare un elenco lunghissimo di tutte queste INCREDIBILI coincidenze, ma la verità è una e una soltano: eravamo nati per stare insieme ma un destino crudele (per me) ci ha separati. Ah, la vita!

Come dicevo giusto ieri ad un'amica, sto scoprendo adesso il gusto di ritornare adolescente. Tutto ritorna: "Titanic", Del Piero in copertina. Come se fosse il '98 e io dovessi fare l'esame di maturità. Allora il viaggio nel tempo esiste davvero!
Senza stare a scomodare Proust e le sue intermittenze del cuore, direi che è proprio una bella sensazione quella di rivivere emozioni che avevi sepolto in una parte di te stessa che credevi di aver dimenticato. D'altra parte è anche un sollievo pensare che non debba rifare l'esame di maturità.
Torno ragazzina e mi tuffo nella lettura sbavando un po' sul servizio fotografico. A quasi 40 anni ed a fine carriera, che figo che rimane il bell'Ale!
Toh, lettrici con un po' di gusto estetico, rifatevi gli occhi! Guardate lì che tartaruga!

lunedì 16 aprile 2012

Con vent'anni nel còre, pare un sogno la morte, eppur si muore

"Tu non sai quanto la morte li attiri. Morire è sì un destino per loro, una ripetizione, una cosa risaputa, ma s'illudono che cambi qualcosa"
Cesare Pavese, "Dialoghi con Leucò"

Chissà cosa si prova. Un attimo prima corri, parli, sorridi e un attimo dopo sei morto. È così che è sucesso a Piermario Morosini, il calciatore del Livorno che sabato scorso, durante una partita, si è accasciato per terra ed è morto a 25 anni.
Ed è così che è successo a Marco Simoncelli, 24 anni, morto appena 6 mesi fa in un incidente così diverso (lui stava correndo in moto sul circuito di Sepang, durante il Gran Premio della Malesia) eppure così uguale.
E ricomincia una storia, che è sempre diversa ma è sempre la stessa: vediamo a ripetizioni le immagini del momento esatto della morte, vediamo i familiari e gli amici abbracciarsi e piangere, i tifosi mettere striscioni; vediamo fotografie con la fidanzata fatte in qualche vacanza al mare o in montagna, sentiamo sempre le stesse parole "era un ragazzo semplice, come tanti". Certo che era come tanti. Come se per il solo fatto di essere famoso e/o di guadagnare qualche soldo in più lo potesse rendere diverso, sovrumano, immune alle brutture della vita.
E i giornali e le tv indugiano sulle lacrime, sugli abbracci straziati e strazianti, sulle immagini dei due ragazzi sorridenti e sereni che stridono con la realtà del presente.
La morte continua ad essere il tabù che più ci attrae. È una sensazione quasi morbosa quella che proviamo ogni volta che passano le immagini di queste morti "pubbliche", quella che ci spinge a riguardarle e riguardarle all'infinito. Non ci credo, era così giovane, non è giusto, poverino, che pena, guarda lì, è successo proprio in quel momento.
E la morte diventa spettacolo, passando in un certo senso da un fatto reale a un fatto "da reality". Cos'è che ci colpisce tanto? Il renderci conto che può succedere a chiunque, anche a coloro che sembrano invincibili? Scoprire di botto che viviamo tutti quanti nell'illusione di essere eterni? Oppure siamo attirati dal vedere come si muore? Cosa succede? Cosa si prova? Soffrirà? Se ne renderà conto?
Viviamo in un mondo che ha paura perfino di pronunciarla la parola "morte": se n'è andato, ci ha lasciati, non è più con noi, è passato a miglior vita. "Andò a ricevere il premio della sua carità", diceva il Manzoni ne "I promessi sposi".
In un periodo storico che tende, a livello linguistico, a semplificare tutto, la morte  è un concetto che, per essere espresso, ha ancora bisogno di perifrasi complicate, di eufemismi.
Se riuscissimo ad approcciarci alla morte con maggior serenità, forse eviteremmo lo scempio mediatico che ci viene proposto ogni volta che qualcuno muore davanti ad una telecamera. Forse riusciremmo a spegnerla, quella telecamera, e restituiremmo a quei ragazzi un loro diritto, che poi è un diritto di tutti: quello di essere, almeno di fronte alla morte, persone e non personaggi.

N.B. La frase che dà il titolo a questo post è una citazione di Teobaldo Ciconi

sabato 14 aprile 2012

Hasta la "Bimba cattiva" siempre!

In questo periodo sto coltivando con amore, quasi fosse una piantina, la mia parte "bimba cattiva" perché ultimamente l'avevo un po' trascurata e stava rischiando di morire. Invece ho riscoperto da poco il piacere di essere tremenda.
Per qualche tempo lo avevo vissuto come un handicap: la bimba cattiva che mi impediva di essere equilibrata e serena. Invece è un'arma in più. È stata quella parte di me che mi ha salvata, sempre. È quella parte di me che non ha paura, che non teme di dare risposte scomode, che non si ferma davanti alle difficoltà, che punta i piedi per ottenere quello che vuole e che, se cade, si rialza con le lacrime agli occhi, tira su col naso e, col broncio, va avanti come e più di prima.
D'altronde, quando una ci nasce...
Avevo si e no tre anni e mio padre cercava di farmi parlare correttamente, senza influenze dialettali toscane. Io sentivo parlare i miei nonni che, come prevede il vernacolo pisano, tendevano a perdere la desinenza -re dell'infinito: "devo andà...", "devo fà...". Ecco, ogni volta che io dicevo, ad esempio, "devo andà!" mio padre mi correggeva stizzito dicendomi " ANDA...RE!". Io stavo zittina e facevo finta di nulla. Finchè un giorno lo sentii che parlava con un amico che era venuto a cena e si lasciò andare a un toscanismo pure lui, dicendo "questo dolce, lo devo finì!". Io mi alzai, davanti a tutti, (avevo tre anni eh!) andai vicina a mio padre e gli dissi ad alta voce "FINI...RE!". 
A 13 anni, ero in vacanza coi miei genitori e giocavo con gli amici a pallavolo in acqua. Eravamo giovani e spensierati, che male facevamo a giocare un po? C'era una signora, di quelle babbione antipatiche invidiose delle ragazzine, che non voleva che giocassimo... diceva che le arrivavano gli schizzi d'acqua in faccia.
Ogni volta che giocavamo ci prendeva a male parole e urlava "ora dico a Federico (il bagnino n.d.r.) di togliervi la palla! Se fossi Federico vi caccerei! Se fossi Federico vi bucherei quel maledetto pallone!" e io un bel giorno mi girai verso la babbiona e le urlai "E io, se fossi Federico, l'affogherei!!!". La vecchia per poco non cadde a terra per un colpo apoplettico, dopodiché si diresse immediatamente verso l'ombrellone dei miei, dove trovò mia madre che mi richiamò seduta stante lì vicino. Arrivai mentre la babbiona stava dicendo a mia madre "non avrei mai pensato che una bambina dall'aria tanto deliziosa potesse rivolgermi una risposta del genere!". Mia madre mi ordinò: "Michela, chiedi subito scusa!" (anche se la vedevo che se la rideva sotto i baffi). E io, dopo essere stata zitta per alcuni secondi, guardai la signora e le dissi "Le chiedo scusa, ma spero che affoghi lo stesso!". La bimba cattiva si spezza ma non si piega.
Questi sono giusto due dei tanti, tantissimi episodi in modalità "bimba cattiva". Sono stata una sciocca a pensare di volerla reprimere. È la cosa migliore che ho!

giovedì 12 aprile 2012

Cronaca di un giorno perfetto

Fuori era caldo. Agli inizi di settembre l'aria è più dolce, specie la mattina, ma nelle ore centrali della giornata il caldo continua ad essere soffocante. Io ero triste per due motivi: ero tornata da poco da San Remo, dove ogni estate passavo quindici giorni di villeggiatura con i miei genitori e mi mancavano tantissimo tutti gli amici. Non facevo che scrivere lettere ed aspettare le risposte. E controllavo la cassetta della posta ogni ora.
Il secondo motivo era che stava per ricominciare la scuola: di lì a pochi giorni avrei dovuto cominciare la quarta liceo e aspettare altri nove lunghi mesi prima di essere di nuovo libera. Era il sei settembre 1996, avevo 17 anni e quel giorno non me lo dimenticherò mai.
A quel tempo avevo tre veri grandi amori: il mio cane, la poesia e Alessandro Del Piero. E fu proprio grazie a Del Piero se un giorno come un altro diventò un giorno da ricordare.
Lui era agli inizi della sua carriera, un ragazzotto ventiduenne con i capelloni e gli occhi all'ingiù, timido e sempre pacato e gentile. E io lo adoravo. Non fraintendetemi, non sono mai stata una di quelle ragazzine isteriche (che oggi vengono chiamate "bimbeminkia") che si strappano i capelli e si mettono ad urlare ed a piangere per niente. Non sono mai stata neppure una di quelle che usa parole tipo "lo amo, è l'uomo della mia vita!" (è più facile che lo dica adesso, quando voglio sentirmi ancora adolescente e per scherzarci sopra, che allora). Io lo stimavo, lo ammiravo, mi piaceva da morire, ma la mia ammirazione era del tipo "mi accontento di guardarti adorante". Chi mi conosce bene, scoprirà adesso che in 15 anni sono cambiata ben poco.
Insomma, la mia adorazione assoluta unita alla mia grafomania mi spinsero, i primi di maggio, a scrivere una bella letterona ed a spedirla a casa dei genitori di Alessandro. Sapevo che lui tornava a casa appena poteva e quindi pensavo che, prima o poi, avrebbe potuto leggerla. Ovviamente, non fui l'unica a pensarla così, perché scoprii dopo poco tempo, durante un'intervista, che Alessandro riceveva migliaia di lettere dai fans e che i genitori ne erano sommersi. Sorrisi per la mia ingenuità e smisi di pensare a quella lettera, fino a quel sei settembre; fino a quando, correndo verso la cassetta della posta, trovai una sorpresa che mi lasciò senza parole: una busta senza il mittente al cui interno, avvolta in un foglio di carta azzurra a quadrettini, c'era la cartolina autografata a penna nera di Alessandro Del Piero. Il timbro postale parlava chiaro: era stata spedita due giorni prima da San Vendemiano (chi conosce Del Piero sa bene che quello è il paese dove era cresciuto e dove ancora vivevano i suoi genitori).
Immaginatevi la mia espressione. Del Piero mi ha risposto! Mamma! Del Piero! Mi ha mandato una sua cartolina! Ma ti rendi conto!! Nonna, guarda, non ci credo!
Ho sempre pensato al perché, fra le migliaia di lettere che ricevevano ogni giorno, scelsero proprio la mia.
La mia lettera non conteneva cuoricini o frasine sdolcinate, non avevo scritto "ti prego, leggimi!", non avevo scritto "ti amo, sei proprio bello!". Avevo esordito con una citazione di una poesia di Neruda "Perché tu mi oda le mie parole a volte si assottigliano come le orme dei gabbiani sulle spiagge"; e poi avevo scritto due scemenze, credo, ma senza "urlarle", senza isterismi. Ero una ragazzina ingenua (la perdita dell'ingenuità sarebbe arrivata non molto tempo dopo, purtroppo), ma forse fu la mia pacatezza a rendere diversa la mia lettera da tutte le altre. A volte la normalità è talmente rara che brilla come una pietra preziosa.
O forse è stata solo fortuna. Magari pescavano una lettera a caso alla settimana ed a quella persona spedivano la cartolina.
Sono passati 15 anni e ancora costudisco gelosamente quella cartolina come una delle cose più preziose che ho. Ogni tanto apro il cassetto e la guardo, ancora leggermente incredula. La guardo come se fosse un talismano: se sono triste riesce ancora a strapparmi un sorriso, a farmi sentire speciale. Ed a farmi sperare di poter vivere ancora un giorno perfetto come quel sei settembre 1996.

mercoledì 11 aprile 2012

Quando per salvarsi serve sognare

Qualche giorno fa sono andata al cinema per vedere "Titanic" e per rivivere tutta l'emozione del film in 3D. Quando l'ho visto per la prima volta avevo 18 anni, era un sabato pomeriggio e quella mattina ero stata interrogata su Leopardi meritandomi un bell'otto. Con una compagna di scuola avevamo deciso di andare a vedere questo film di cui tanto si parlava, che veniva presentato come "il più costoso della storia del cinema, ricco di effetti speciali mai visti prima!", soprattutto per curiosità. Per cui, all'uscita di scuola, lasciammo gli zainetti nel negozio di un'amica comune, andammo a prenderci una pizza e aspettammo che il cinema aprisse (un cinema in centro a Pisa che si chiamava "Astra", adesso al suo posto c'è "Zara").
Entrammo per vedere gli effetti speciali, uscimmo in lacrime. E vabbè, penserà qualcuno di voi, eravate adolescenti, romantiche e sognatrici, cos'altro avreste potuto fare di fronte alla tragica fine della storia d'amore di Jack e Rose?
Quattordici anni dopo, all'età di 32 anni, con la stessa compagna di scuola, che adesso è diventata la migliore amica che potessi mai avere, ho varcato la soglia di un altro cinema, per andare a rivedere lo stesso film. E il risultato è stato lo stesso, esattamente come la prima volta.
Non starò qui a snocciolare i premi vinti da "Titanic", né il successo planetario che ha avuto, né il fatto che cambiò a quel tempo le sorti dell'industria cinematografica che era entrata in profonda crisi perché la gente non andava più al cinema. Non voglio nemmeno ribattere a tutti gli snobbini che storcono il naso con orrore perché lo considerano un film commerciale e quindi indegno della loro attenzione. Non voglio ricordare il lavoro accurato fatto da tutti coloro che hanno lavorato alla produzione del film, dalla costumista alla truccatrice, da chi ha scritto la colonna sonora a coloro che sono scesi giù, fino in fondo all'oceano Atlantico, per andare a filmare il vero Titanic. Non mi dilungherò sul lavoro fatto dagli sceneggiatori e dal regista, nel cercare di intrecciare perfettamente le storie dei veri personaggi presenti sul Titanic a quelle dei personaggi inventati; non voglio nemmeno commentare le critiche (abbastanza superficiali) di chi sostiene che non sia veritiero (d'altronde, questo film non è né veritiero, né verosimile, è semplicemente vero) che una nave sia affondata in così poco tempo, perché è evidente che certe persone non hanno mai letto nemmeno un articolo di giornale che si occupasse della vera storia del Titanic, altrimenti saprebbero che, sì, purtroppo, è andata esattamente così, compreso il fatto che alla fine la nave è andata giù "come un ascensore" in circa trenta secondi (cito le testuali parole di un membro dell'equipaggio che si salvò dal disastro. Se qualcuno fosse interessato a saperne di più, vi consiglio di leggere un libro che si intitola "I due Titanic", di Robin Gardiner e Dan Van der Vat, con una ricostruzione accurata e una teoria interessante su ciò che potrebbe celarsi dietro ad una tragedia che da 100 anni affascina e inquieta milioni di persone). Lascio perdere tutto, senza fare polemica. Alla fine i gusti non si discutono.
Voglio solo porre l'attenzione su un fatto: dopo 15 anni, dopo che tutti, o quasi tutti, hanno visto o perlomeno sentito parlare di questo film, la sala del cinema traboccava di gente, studenti e liberi professionisti, bambini e anziani, adolescenti e trentenni, operai e studiosi. Gente che, durante la proiezione, non ha quasi fiatato e al massimo si soffiava di nascosto il naso. Gente che alla fine ha applaudito a lungo, e non certo per il 3D.
Nessuna opinione, nessuna critica, nessun premio, vinto o no, possono essere più forti delle emozioni che gli spettatori hanno provato.
Per quello che mi riguarda, penso esattamente la stessa cosa di 14 anni fa: è un capolavoro. E non sono più un'adolescente. E di cose nella vita ne ho viste tante. Eppure.
Eppure sono stata di nuovo colpita nel profondo, in una parte di me stessa che avevo perfino dimenticato di avere, quando ho sentito la vecchia Rose pronunciare quella frase che già 14 anni fa mi tolse il sonno per diversi giorni: "Adesso sapete che c'era un uomo che si chiamava Jack Dawson e che lui mi ha salvato, in tutti i modi in cui una persona può essere salvata".
Jack si sacrifica per lei, Jack la salva da se stessa e dalla tragedia che stava vivendo, Jack la salva dal disastro. Forse è questo che rende inverosimile una storia vera, forse è la consapevolezza che nessuno di noi incontrerà mai qualcuno che ci salvi "in ogni modo in cui una persona può essere salvata" a rendere odioso questo film a molte persone, forse è sapere che un amore del genere non esiste, che nessuno si sacrificherebbe per salvare una persona conosciuta da soli tre giorni. Perché la realtà è ben diversa: la realtà è Schettino che abbandona la nave e se ne va, la realtà è quella della gente che, vedendo una bambina piangere disperata le monta addosso pur di mettersi in salvo su una scialuppa, la realtà è la gente ricca che ha pagato per mettersi in salvo senza bagnarsi nemmeno le sue belle scarpe firmate. È della Concordia che sto parlando, ovviamente. La realtà è quella. Non certo Jack e Rose. E a volte, il troppo ottimismo, il troppo sognare, il troppo romanticismo possono dare fastidio.

martedì 3 aprile 2012

È come un sogno, nessuna fine, nessun inizio...

Uno dei (tanti) sogni che ho è quello di uscire di casa, un giorno, montare in macchina e partire per un viaggio lunghissimo e conoscere, conoscere il più possibile, il mondo. Ogni tanto mi domando come facciamo a non impazzire pensando di aver così poco tempo da vivere e così tante cose da vedere, e cos'è che ci trattiene dal salire sul primo treno per cominciare quel viaggio che, purtroppo, la maggior parte di noi non farà mai.
Io però ho già bene in mente come sarà il mio viaggio, so quali luoghi vorrò vedere per primi, so con chi lo farò, ho perfino scelto la musica che mi accompagnerà.
Partirò insieme all'amica che ha condiviso con me ogni momento, bello e meno bello, di questi ultimi 18 anni e il primo pezzo che ascolteremo, d'obbligo, sarà "Avventuriera" di Gianna Nannini: "...dove ogni bandiera si colora con il mare, là, dopo la terra, è il nostro unico confine!". Raggiungeremo Parigi, una delle prime tappe, un po' per lo shopping (sarò anche avventuriera, ma sempre con stile), un po' perché non puoi andare da nessuna parte se non hai visto la "Gioconda" almeno una volta nella vita, cantando a squarciagola "Moi Lolita" e "You're so vain". La prima per sentirsi francesi, ancora ragazzine e un po' incoscienti, la seconda perché durante il viaggio parleremo sicuramente di un uomo, o più di uno, molto vanitoso che "...si è lasciato sfuggire tutto ciò che amava e una di quelle cose ero io!".
Andremo fino in Norvegia per vedere l'aurora boreale, ascoltando "Knockin' on heaven's door", perché se devo immaginare il colore della porta del paradiso, è così che la vedo. Ci saranno momenti tristi, forse, in cui ci metteremo a piangere pensando a tutto ciò che abbiamo lasciato e che ci manca, e allora avremo bisogno di sentirci urlare "...don't you cry tonight, there's a heaven above you baby! And don't you cry tonight!".
Penseremo a Dio? Al destino? Forse. Sicuramente nella nostra compilation non potrà mancare Madonna e "Like a Prayer". "It's like a dream".
Londra e i Beatles, Dublino e Cranberries , l'America e Bon Jovi... ho il sogno di essere su una di quelle grandi strade americane, quelle che sembrano continuare all'infinito nel deserto, su una macchina decapottabile, di quelle che hanno loro, enormi, e di alzarmi in piedi e allargare le braccia urlando "...and I wan't there when you were happy, I wasn't there when you were down!
Vorrò portarmi anche un pezzetto d'Italia e del mio adorato Baglioni: è per questo che mi immagino davanti all'oceano "con una gioia che fa male di più della malinconia", dove forse imparerò che "per morire mi basterà un tramonto". E i Pooh, perché sono il legame con qualcuno (o qualcosa) che mi ha cambiata per sempre, e che più volte, nei "mattini di grigia foschia", mi ha fatto "decidere di andarmene via!"
Tornerò? Sicuro! Una delle parti più belle di un viaggio è probabilmente la certezza di voler tornare a casa, per riabbracciare tutte le persone a cui vuoi bene, per dire a tutti che solo stando lontana hai capito quanto hai bisogno di loro, e per raccontare il tuo viaggio, condividerlo e riviverlo.
E c'è una canzone perfetta per questo momento:

"Let me go home it'll all be alright, I'll be home tonight, I'm coming back home"