giovedì 31 maggio 2012

...e non è un'invezione e neanche un gioco di parole...

 "Ogni volta che un bimbo dice "Io non credo alle fate", c'è una fatina che da qualche parte cade a terra morta"
James M. Barrie, "Peter Pan"

È una calda sera di fine Maggio e sono seduta in giardino. Sono circondata dalle lucciole e nell'aria c'è un profumo quasi voluttoso di rose e di gelsomino che mio padre coltiva con passione e dedizione. L'erba è tiepida e ci sono già i grilli che cantano in cerca delle loro compagne. Tutto è circondato da un alone quasi magico e mi basta chiudere gli occhi per vedere me stessa, più di 25 anni fa, in questo stesso giardino, con mia nonna e mia madre che mi dicevano "guarda, Michela, guarda le fatine!". Per me le lucciole erano fatine. Tante piccole Trilly nella mia personale Isola che non c'è. I miei genitori mi portarono a vedere "Peter Pan" in occasione del ridoppiaggio del 1986 e mi innamorai della fatina alata vestita di verde. Da allora non ho mai smesso di adorarla, tant'è che circa due mesi fa mi sono comprata una borsa con Trilly raffigurata e giusto oggi pomeriggio sono stata tentata di comprarmi un paio di scarpe sempre con la mia amata fatina disegnata sopra. Se non fosse che avevano terminato il numero...
Sarà che mi fa simpatia, sarà che adoro quel suo modo di essere gelosa di Peter (quella stupidina di Wendy! Ma come si permette di intromettersi tra lei e Peter??), sarà che tutti mi hanno sempre detto che avevo (che ho ancora) lo stesso modo di fare il broncio e di essere impertinente, lo stesso carattere volubile e la capacità di passare dalla rabbia alla contentezza (e viceversa) in poco tempo... insomma, sto pensando di farmela tatuare da un bel po'. Solo che poi, fra 40 anni, nonsepovvedè 'na vecchietta con Trilly tatuata sulla spalla destra!
Comunque, per tornare agli anni dello stupore, i miei genitori e miei nonni, quando volevano proprio vedermi estasiata, mi dicevano che in giardino vivevano tante piccole Trilly e io correvo a cercare di vederle e di catturarle. Mi sembra ancora di sentire l'eco della filastrocca che la mia bisnonna mi aveva insegnato:

Lucciola lucciola vieni da me
ti darò il pan del Re
il pan del Re e della Regina
lucciola lucciola, vieni vicina!

Spesso riuscivo a catturarle e le mettevo sotto un bicchiere. Poverine! Di solito dopo pochi minuti smettevano di brillare e io ci rimanevo male perché non avevano affatto il vestitino verde. Ma mio padre mi diceva che, quando si facevano vedere dagli uomini, non potevano mostrarsi per come erano realmente; poi le liberava e loro ricominciavano a brillare.
Bè, Peter Pan esiste proprio per ricordare agli adulti di non dimenticare i bambini che sono stati. Per me ci sono le mie Trilly-luccioline a ricordarmelo e stasera, nell'aria dolce del mio giardino-Neverland, mi scende una lacrima se penso a quante volte, negli ultimi mesi, mi sono allontanata dall'isola che non c'è e da quella bambina che credeva nelle fate.

mercoledì 23 maggio 2012

La cravatta al maiale

Non so se avete sentito di quella grande str...ehm stupidata che ora va tanto di moda in America: la campagna "Sei bella così come sei".
Pare che in America alcune signore più o meno conosciute stiano andando in giro a dire alle donne di non truccarsi per un po' di tempo in modo da accettarsi così come mamma le ha fatte e di vedersi belle senza trucchi e senza inganni.
Ho subito interpellato una mia amica psicologa per sapere cosa ne pensava. "Bé", mi ha detto, "credo che sia proprio il contrario: truccarsi aiuta le donne a sentirsi più carine, e quindi più sicure. E poi è inutile nasconderlo: un trucco ben fatto è sinonimo di cura di sè. Il non truccarsi mai, specie in occasioni in cui sarebbe opportuno farlo, viene percepito come una tendenza a lasciarsi andare ed a non curarsi del proprio aspetto". Credevo che questo concetto fosse lapalissiano. Invece, in effetti, pare che ci sia un numero abbastanza alto di donne che non si truccano e non hanno idea di cosa sia un fondotinta o un mascara.
Ebbene, fra le donne che non si truccano mai ho individuato tre categorie principali: la sportiva, la maschiaccia e la sciattona.
La sportiva è colei che va sempre in giro in tuta e scarpe da tennis, ma riesce a differenziarsi dalla sciattona (altra categoria che predilige spesso la tuta) per un piccolo particolare: lei, lo sport, lo pratica davvero ed a livello serio. Quindi è facile comprendere il perché non si trucchi: il sudore ed il trucco non vanno d'accordo. La sportiva dunque è una donna che, opportunatamente "educata" può imparare a capire che, a volte, si può anche dare spazio a un po' di sana e frivola femminilità, senza rinunciare allo sport. Un ottimo esempio? Federica Pellegrini.
La maschiaccia è di solito una donna che saprebbe truccarsi ma che sceglie di non farlo per una specie di ribellione: non voglio essere considerata il sesso debole, io sono forte come un uomo, io non perdo tempo dietro a queste frivolezze femminili, io gli uomini li trovo lo stesso e sono più forte di loro! E qui ci sta una bella citazione da una canzone di Vecchioni : "...prendila te la signorina Rambo, che si innamori di te 'sta specie di canguro, che fa l'amore a tempo, che fa la corsa all'oro, veloce come un lampo, tenera come un muro...". Lui, la donna, la voleva con la gonna e, scommettiamo?, anche con un po' di rossetto.
Ok, signorine Rambo, fatela pure questa crociata, ma allora fatela fino in fondo: smettetela di depilarvi le ascelle e le gambe quando andate al mare e smettetela di far vedere le tette per conquistarvi un po' di favori maschili. Che poi, a pensarci bene, mi viene in mente il commento di un amico dopo che si era portato a letto una di queste molto ribelli signorine: "sì, per carità, trombabile, però dovresti insegnarle a farsi le sopracciglia che non si possono vedere!". E quindi...
E veniamo alla terza e più terribile delle categorie: la sciattona. Colei che non è sportiva (o non più di tanto) e vive perennemente in tuta, colei che va sempre in giro con la faccia smorta, le occhiaie, le rughe d'espressione. Colei che, anche quando deve andare ad una festa o ad un concerto, è capace di mettersi un vestitino carino e le scarpe coi tacchi ma senza nemmeno una leggera passata di cipria o di mascara, il che, come direbbe elegantemente mio padre, "è come mettere la cravatta al maiale". Il paradosso è che proprio colei che ne avrebbe più bisogno, più della sportiva, più della maschiaccia, più di qualunque altra donna, proprio lei è quella che va in giro con una faccia che sarebbe da metterle un sacchetto sulla testa. "Sei bella così come sei"?? Ma per favore! NON. È. VERO.
Il trucco, usato con moderazione s'intende, usato nei momenti giusti e nelle occasioni giuste - e qui dovrei aprire un altro luuuuunghissimo capitolo su quelle donne che sono l'esatto opposto: coloro che si truccano per andare in palestra o al mare, coloro che non escono senza trucco nemmeno per andare a buttare il sacchetto della spazzatura- il trucco, dicevo, usato nei modi e nei momenti opportuni è un diritto e, permettetemi di dirlo, quasi un dovere di ogni donna. Una donna sciatta è di una tristezza infinita. Una donna sciatta non ama se stessa. Una donna sciatta è brutta e fastidiosa a vedersi.
È bello mettersi una tuta ed andare a fare una gita con la faccia pulita, acqua e sapone; è bello avere la libertà di uscire senza trucco, perché ci sono occasioni in cui è vietato truccarsi. Ma poi, vi prego, ogni tanto, se siete invitate ad un compleanno di un'amica, se siete invitate ad un matrimonio, se dovete andare ad una festa di Laurea, mettetevelo un velo di cipria! Fatelo questo sforzo di comprarvi un mascara! Fatelo per le altre donne, se non volete farlo per gli uomini. Vi prego! Come avete fatto a passare tutta l'adoloescenza senza quei bellisimi lucidalabbra alla vaniglia o alla fragola, che se li leccavi erano dolci e per questo si chiamavano "Tirabaci"? Come avete fatto a non truccarvi con le amiche, in classe, durante l'ora di religione? Come avete fatto a non comprarvi "Cioè"? A non guardare "Non è la Rai", a non leggere "Lolita"?
Non abbiate paura di apparire frivole, e levatevi dalla testa il luogo comune che la donna "impegnata" e intelligente non possa anche essere femminile e alla moda.
Forza, sciattone, basta con l'effetto "cravatta sul maiale" e mettetevi un po' di fard!

Che ora si chiama blush.

venerdì 18 maggio 2012

L'Inferno sono gli altri

Comprare un libro perché vi piace la copertina: vi sarà capitato più di una volta. A me è successo, ultimamente, con "Dannazione" di Chuck Palahniuk.
Lo scrittore americano, famoso per aver scritto libri come "Soffocare" e "Fight Club", ha colpito ancora. "Dannazione", nel perfetto stile irriverente del simpatico Chuck, è la storia di una ragazzina di 13 anni, Madison, figlia di una coppia che ricorda vagamente i "Brangelina" (per chi non fosse esperto di gossip, è così che vengono chiamati Angelina Jolie e Brad Pitt): attori, famosi, ricchi, vegetariani, impegnati sempre in prima linea nella lotta contro l'inquinamento, che usano il jet privato MA lo arredano all'interno solo con materiali ecocompatibili, che adottano figli su figli e poi li parcheggiano in qualche costoso collegio svizzero. Madison è la loro unica figlia naturale e non avrebbe nulla di cui potersi lamentare. Se non fosse per un piccolo problemino: è morta. Non solo, è anche finita all'Inferno.
Come ci sia finita non si sa, anche se finire all'Inferno oggigiorno è maledettamente facile: basta pronunciare la parola "cazzo" per più di 500 volte nella vita e sei fregato.
Sta di fatto che la piccola Madison, ragazzina colta ed educata, si ritrova lì insieme ad un gruppo variegato di personaggi, un giocatore di football, un secchione, una cheerleader, un punkabbestia, ed insieme a loro deve riuscire nella non facile impresa di farsi piacere un posto in cui esistono le Colline di Unghie Tagliate e il Lago di Sperma Sprecato.
In realtà, dopo un primo momento di comprensibile spaesamento, Madison si rende conto che, forse forse, l'Inferno vero era vivere con mamma e papà. Due genitori che, per fare un esempio, erano capaci di farle una festa di compleanno nudista, in cui invitavano tutti i loro amici fricchettoni con prole, e poi, sempre completamente nudi, si drogavano e, quando i loro figli erano andati a letto, praticavano sesso libero. Quindi, forse, l'inferno può diventare un posto accogliente, perché, come tutti sanno, non è il luogo in cui si vive a renderci felici, ma le persone che ci sono capitate come compagne di viaggio.
L'evidente incongruenza tra l'età di Madison e il suo modo cinico ed eccessivamente smaliziato di vedere la vita, unita alla genialità di battute cattive e politicamente scorrette, sono il punto di forza di questo libro: "...mio padre, inutile come sempre, vi direbbe: "Le donne mangiano per nutrire la passera". E il senso è: tutto ciò che facciamo in eccesso è un modo per compensare la mancanza di una minima gratificazione sessuale. Mia madre direbbe che gli uomini eccedono con l'alcol perché ad aver sete sono i loro peni. La verità è che, in quanto figlia di genitori ex hippy, ex rasta, ex punk, ex anarchici, sono stata bombardata da una quantità infinita di ovvientà.
E no, non ho mai avuto il piacere di provare un orgasmo in prima persona (...) ma ho tuttavia imparato che se aiuti una donna a scoprire le proprietà curative legate alla manipolazione del clitoride ella diverrà tua fida seguace e migliore amica per sempre."

Ok, fin qui la recensione del libro, che non mi sono affatto pentita di aver comprato. Ma il vero motivo per cui l'ho acquistato, come vi dicevo, è stata la copertina. Vedendo Madison ritratta, ho subito pensato che mi assomigliasse: qualcosa negli occhi, nello sguardo, nel sorrisetto... non lo so, qualcosa mi ha ricordata me stessa. E ho pensato che fosse di buon auspicio! Insomma, chi non vorrebbe andare in un posto in cui si incontrano Marilyn, James Dean, Janis Joplin, Nureyev, Frank Sinatra, John Lennon...?? Lasciamo il Paradiso a coloro
che si vogliono annoiare anche da morti!






N.B. La frase che dà il titolo a questo post è una citazione di Jean-Paul Sartre

giovedì 17 maggio 2012

Bastardadentro ma senza mutande

Mi è capitato spesso di parlare degli uomini bastardi (e ne riparlerò, statene certi, anche perché non tutte hanno la fortuna di averne conociuti, invece io sì e voglio mettere a disposizione tutto il mio sapere), ma stavolta voglio fare un piccolo, piccolissimo, oserei dire minimo, esame di coscienza ed ammettere che, nel corso degli anni, pure la sottoscritta è stata bastardella dentro con qualche malcapitato fanciullo che ha avuto la (s)fortuna di incrociare la sua strada.
Era il 1997, ero in vacanza a Sanremo coi miei genitori e con gli amici di tutte le estati. C'era il cameriere del ristorante che mi faceva gli occhi dolci. Era pure carino, per carità, moro, alto, occhi verdi, ma io non me lo filavo per niente. Una sera chiese a una mia amica di poter uscire con noi, dopo la fine del suo turno di lavoro. Poveretto. Mi si stringe il cuore ancora adesso se penso a come l'ho trattato. Lui si mise seduto accanto a me in gelateria e tentò di parlarmi per tutta la sera. Io facevo finta di ascoltarlo e poi, mentre lui parlava, mi giravo verso le mie amiche e cambiavo discorso senza nemmeno rispondergli.
Una mattina scesi per la colazione prima dei miei genitori, perché dovevo partire presto per una giornata fuori Sanremo con gli amici. Lui mi servì il caffelatte e le fette biscottate e mi salutò. Ricambiai il saluto poco convinta e poi mi alzai. Mentre attraversavo la sala, lo vidi uscire di corsa dalla cucina per dirmi qualcosa... feci finta di non vederlo, mi voltai dall'altra parte e me ne andai. Il giorno dopo mi servì un piatto di spaghetti versandomi un po' di sugo sui jeans. Chi la fa l'aspetti.
Sempre al mare, sempre in estate, sempre nel 1997, ma stavolta a Tirrenia (paesino di mare in provincia di Pisa), incontrai un tipo, si chiamava Alessandro. Mi invitò a prendere una coca al bar e, dopo dieci minuti che parlavamo, mi disse "sai, devo dirti una cosa: io sono stato in coma per 4 mesi lo scorso anno, a causa di un incidente d'auto gravissimo". Sarà stato il modo assurdo in cui me lo raccontò, dopo nemmeno un quarto d'ora che ci conoscevamo, sarà stato il tono con cui lo disse, come se mi raccontasse di avere un cane di nome Pallino, sta di fatto che mi misi a ridere senza ritegno. E più lui mi guardava con sgomento, più io ridevo, con le lacrime agli occhi, dicendogli anche cose del tipo "ma smettila di dire stronzate!". Poi mi fece vedere la cicatrice. Smisi di ridere e gli risposi "vabbè, ma ti sembra una cosa da dire in questo modo? Senti, mi sa che non ti sei ripreso tanto bene!". Non lo rividi mai più.
Un anno dopo, ad un amico che mi telefonava spesso e faceva tutto il carino e il gentile, risposi "ma noooo, mi chiami la serata della finale del Festival di Sanremo??? Ma non ci penso nemmeno a stare al telefono con te! Ciao!! Chiama domani!". Non chiamò né l'indomani, né mai più. L'ho ribeccato su facebook lo scorso anno e la prima cosa che mi ha detto è stata "lo guardi ancora il festival?". E vabbè, dai, manco lo avessi traumatizzato. Che lagna!
Quando ancora andavo a liceo, succedeva a volte che mio padre si dimenticasse di venirmi a prendere a scuola e io lo raggiungevo in caserma. Lì c'era sempre un suo collega, di sette anni più grande di me, figo da morire, ma troppo sicuro di sè, di quei tipi che quando ti guardano pensano "mi basta schioccare le dita e mi cadi ai piedi". Io gli sbavicchiavo dietro, ma lui manco mi vedeva. Finché non raggiunsi i 17 anni e di colpo smisi di essere "la figlia del maresciallo" e divenni "Michela". Solo che io, nel frattempo, mi ero innamorata di un altro. Mi telefonava e mi negavo al telefono. Mi salutava e mi giravo dall'altra parte. Un giorno andai da mio padre dopo la scuola ed appena entrai in caserma vidi questo ragazzo corrermi incontro in mimetica. Bello lo era, nulla da dire. Ma non lo degnai nemmeno di un saluto. Quando mi si avvicinò e mi chiamò per nome, io mi girai e risposi "oh, non ti avevo affatto riconosciuto, in mimetica siete tutti uguali! Ciao, vado da mio padre!". Che smacco! Di questa "bastardatina" vado fiera, considerando il fatto che lui era da strappamutande e io ero adolescente. Voglio dire, ci vuole coraggio a non strapparsele davvero, le mutande, a 17 anni di fronte al tipo più grande che ti guarda come se fossi una fragolona succulenta!
Peccato che poi, quelle mutande, me le sia strappate proprio quando, invece, sarebbe stato meglio indossare pure la cintura di castità. :-)

martedì 15 maggio 2012

Monday Night Fever

La notte scorsa, in preda alla febbre alta, ho deciso di andarmene. Come la piccola Katy della famosa canzone, ho pensato che la porta era socchiusa e non dovevo nemmeno inventare una scusa. Ho acceso il computer e ho pensato: guardo gli orari dei treni e il primo che passa domattina, che mi porti ovunque tranne che qui, lo prendo. Non ho fatto in tempo: la connessione è caduta (e non è più tornata) non appena ho cominciato a digitare "Trenitalia...". Se credessi ai fantasmi direi che è stato lo spirito di qualche avo ad impedirmi di fuggire. Se credessi al destino, direi che forse il mio posto è qua (tanto per continuare ad usare espressioni dei Pooh). Se credessi alla sfiga, direi che in questo periodo ce l'ha con me. Ma dato che non credo a nulla di tutto ciò, ho solo inveito contro la chiavetta USB e sono tornata a letto, col broncio e il termometro, constatando che nel frattempo la febbre era salita un altro po'.
Che poi, dove mai sarei potuta andare? Non mi reggo in piedi in questi giorni. Inoltre, avrei dovuto decidere in quattro e quattr'otto cosa mettere nello zainetto. Zainetto... valigia. Valigie. Sì insomma un paio, piccoline, giusto il minimo indispensabile. Però ecco, scappare con la febbre alta e due... ehm...tre valigie (non avevo contato quella per le scarpe e le borse), senza far rumore, sarebbe stato difficile.
Poi, qual è l'abbigliamento giusto per scappare di notte come una ragazza davvero ribelle? Aprendo il mio armadio, direi che non ho niente da mettermi per l'occasione. Ho diciotto paia di ballerine, due paia di scarpe rosse col tacco alto, un paio rosa coi glitter, due paie nere col fiocchino di vernice, dieci paia di infradito... ah ecco, ho un nuovo bellissimo paio di converse rosa shocking. Ma si può scappare con le scarpe rosa shocking?
Nel mio armadio imperano il rosa, il rosso, il verde, camicette bianche, gilet, jeans sbrilluccicosi, pantaloni neri eleganti, vestitini da portare con i leggings, t-shirt di Minnie e Betty Boop, top con farfalle, top di pizzo, maglie con fiocchi e nastri... ma nessun vestito da vera Bad Girl! Non ho nemmeno un giubottino di pelle nera. O una felpa. A pensarci bene, non ho nemmeno lo zainetto.
Promemoria: comprare abbigliamento adatto per scappare di casa.
Inoltre, avrei dovuto fare una doccia e truccarmi. Ritoccarmi lo smalto (anche ai piedi). Mica potevo uscire così... e i capelli: in questo periodo sono sfibrati e trascurati, non ho avuto tempo di andare dal parrucchiere e, per carità!, ci ho messo ANNI per trovarne uno decente. Se scappo mi tocca ricominciare da capo??
Promemoria: scegliere un posto dove scappare che sia ben fornito di parrucchieri per signora.
No, decisamente ieri notte non ero pronta. Forse è stata una fortuna che la connessione sia caduta. Ora mi sarei ritrovata chissà dove, struccata, spettinata, con lo smalto sbeccato, con indosso un paio di jeans coi brillantini, le converse rosa shocking e la maglietta di Minnie, seduta su un ciglio della strada con tre valigie piene di scarpe. E con la febbre.

"Chiudi pian piano e ritorna a dormire, nessuno nel mondo ti deve sentire..."

domenica 13 maggio 2012

"...che dà per li occhi una dolcezza al còre..."

Che tipo intrigante doveva essere re Giorgio IV d'Inghilterra!
Onestamente, a vederlo dai ritratti, non sembrerebbe un gran figo, ma leggendo della sua storia d'amore con Maria Fitzherbert, non si può negare che avesse un certo fascino...
Ma partiamo dall'inizio: Giorgino, classe 1762, era figlio di Giorgio III e di Carlotta di Meclemburgo-Streliz. Essendo primogenito nacque già titolato: duca di questo e quello, conte di blablabla e soprattutto principe del Galles. Per intenderci, lo stesso titolo che ha oggi Carlo d'Inghilterra, comprese le sue orecchie.
Raggiunti i 21 anni, il principino ebbe la paghetta dai genitori: qualcosa come 50.000 sterline l'anno, che il Parlamento integrò con altre 60.000 sterline, per una somma pari dunque a 110.000 sterline l'anno. Cosicchè il principe decise di trasferirsi in un appartamentino, giusto per avere una propria indipendenza:



                                                     Carlton House


L'anno dopo, era il 1784, Giorgino conobbe a teatro Maria Fitzherbert e se innamorò seduta stante. Piccolo problemino: lei era più grande di sei anni (ne aveva 28) ed era già due volte vedova. Altro piccolo problemino: era borghese e cattolica. Lui avrebbe voluto sposarla, ma secondo la legge se lo avesse fatto non sarebbe più potuto salire al trono d'Inghilterra. Il padre, Giorgio III, decise che il matrimonio non s'aveva da fare e Giorgino inscenò un tentativo di suicidio. Maria, dunque, decise di farsi dimenticare e si allontanò dall'Inghilterra e dall'amato. Ma, qualche tempo dopo, lui le inviò una proposta di matrimonio, e qui viene il bello: non le inviò, insieme alla proposta, il classico, noioso brillocco. No, no. Lui le inviò una miniatura di un suo occhio, per dirle: mi sono innamorato di te appena ti ho vista e non riesco a dimenticarti. Ma che cosa fascinosa e intrigante! Ovviamente lei tornò di corsa (chi non l'avrebbe fatto??) e i due si sposarono in gran segreto. Dopodiché anche Maria volle regalare al marito una miniatura del suo occhio.
Vissero felici e contenti? Ma manco per idea.
Giorgino si era indebitato fino al collo grazie ad una vita dissoluta e il padre si rifiutò di aiutarlo economicamente finché fosse sposato con Maria. Quindi, alla fine, egli dovette cedere e sposarsi con una cugina per avere un erede legittimo, ma subito dopo la nascita della figlia si separò e tornò da Maria. La rese una donna felice... e cornuta. Infatti lui ebbe qualche amante, cinque o sei circa (ma erano tutte "solo amiche", eh!) e un paio di figlioli illegittimi, ma che vuoi farci? Quando ti metti insieme ad un uomo del genere, nel pacchetto sono comprese anche le corna. La cosa importante è che, quando lui morì, volle essere seppellito assieme al medaglione con la miniatura dell'occhio della cara, cara Maria. Cosa vuoi che siano le corna di fronte ad un gesto così importante? Mica avrete pensato che il vero amore preveda anche il rispetto per la donna amata, vero?
Nel Settecento, tuttavia, divenne una moda scambiarsi le miniature degli sguardi come pegno d'amore e, se siete interessati a vederle, potrete farvi un viaggio in Alabama, alla Arrington Gallery di Birmingham, per assistere  alla mostra "The Look of Love". Sbrigatevi però, dura solo fino al 10 Giugno!

http://www.artsbma.org/exhibitions/look-of-love


N.B. La frase che dà il titolo a questo post è una citazione tratta dal sonetto "Tanto gentile e tanto onesta pare", di Dante Alighieri



 


sabato 12 maggio 2012

Il club degli sbagli

Avete presente quando in radio passano quelle canzoni che sembrano scritte apposta per voi e vi guardate in giro come se tutto il mondo lo sapesse, come se ce l'aveste scritto in faccia che stanno parlando di voi? La realtà invece è che certe storie si ripetono sempre. E questo, se da una parte è consolatorio, una specie di "mal comune mezzo gaudio", dall'altra è anche un po' triste, perché viene a mancare l'originalità, il poter dire "come me, nessuno mai".
A me è successo stamattina al supermercato, con una canzone della Pausini che non avevo mai sentito, tratta dal nuovo album: "Mi tengo". No, non parla di un giro sulle montagne russe. Parla, manco a dirlo, di un amore finito (d'altra parte, la Pausini, da quando Marco se n'è andato, è rimasta traumatizzata).
Per riassumere, la canzone dice più o meno: "mi tengo le cose belle, senza pensar troppo a quelle brutte", e annovera fra la cose belle i soliti brividi alla schiena, il guardare le stelle insieme e bla bla bla.
Mi vergogno molto, devo ammetterlo, di essermi riconosciuta in cotanta banalotta accozzaglia di frasine romantiche. Ma tant'è.
Il testo della Pausini è buonista, ovviamente, perché a un certo punto dice "mi tengo la ferita aperta, di aver ragione cosa me ne importa". Sì, è vero, anch'io l'ho pensato qualche rara volta in cui gli antidepressivi che avevo preso erano talmente tanti da inibirmi qualsiasi reazione aggressiva. Per dire, c'è stato un giorno in cui in un negozio mi hanno portato via da sotto il naso l'ultimo scontatissimo paio di ballerine Guess che mi stavano DA DIO e io ho sorriso dicendo "va bene, spero che le ragazza che le ha comprate sia contenta". Ero proprio fuori di testa. In realtà a me di aver ragione importa eccome. Mi è sempre importato da morire. Sono stata programmata per avere l'ultima parola. Per quanto riguarda la ferita aperta... è tristemente vero, quella lì fa proprio male. Hai voglia di metterci su il balsamo delle parole degli amici, di chi ti ripete che ti vuole bene, che ti abbraccia, che sei speciale. La ferita rimane là, basta sfiorarla con un pensiero, per sbaglio, che ti fa piangere. Tocca conviverci, che altro si può fare?
Quando un rapporto finisce si tende a ricordare molto spesso solo le cose brutte. Il perché è ovvio: le cose brutte hanno pesato di più, altrimenti il rapporto sarebbe andato avanti. Lapalissiano, direi. Però, poi, se ci pensi, la sofferenza nasce da tutte le cose belle che ti mancano. Ma si può essere fatti peggio di così?
Ho già scritto un post su questo argomento, si intitolava "La paura di aprire un cassetto". Se lo rileggo adesso, mi rendo conto di quanto fossi lucida nel prevedere la sofferenza che sarebbe venuta, eppure me la sono procurata lo stesso, perché, tanto per citare di nuovo la canzone della Pausini ero "parte di uno sbaglio". E fra continuare a sbagliare stando male e sentendomi in colpa e ricominciare a camminare a testa alta (anche se il senso di colpa è un po' come la ferita aperta: non passa mai, tocca conviverci) ho scelto la seconda strada. Tutto questo però non cancella il fatto che ci siano state cose belle, che non ho intenzione di dimenticare. E le cose belle che ci sono state sono quelle che ogni altra persona a questo mondo ha vissuto. Saranno banali, ma sono vere: le stelle, i brividi alla schiena, i baci, le risate etc, etc... Ecco perché quella canzone parla di me come di altre milioni di persone, e la prossima volta che la sentirò, mi girerò alla ricerca di sguardi persi come il mio, e ricambierò lo sguardo in un silenzioso saluto di benvenuto nel club di chi è "...stato parte di uno sbaglio, ma a volte anche qualcosa di un po' meglio".

giovedì 10 maggio 2012

Zia Umbertina

Ogni tanto penso alla zia Umbertina con nostalgia. Era la zia della mia nonna materna, in verità, ma in casa la chiamavamo tutti così. Il mio bisnonno, Vittorio, aveva tre fratelli e uno di loro, Ernesto, aveva sposato Umbertina. Quando nacqui io erano ancora vivi entrambi, ma di lì a pochi anni lei rimase vedova. Era nata nel 1910 e me la ricordo come una vecchietta arzilla coi capelli neri a caschetto, un po' mossi (ovviamente tinti), con due tette enormi (la cui pelle era fresca come quella di una trentenne) e completamente gobba, tanto che sembrava lo fosse per il peso delle tette. In realtà era diventata gobba perché aveva lavorato una vita nei campi, curva a strappare erbacce, raccogliere verdure e lavorare la terra. Per spostarsi in paese (lo stesso paese in cui tutt'ora abito, Zambra) usava una vecchissima bicicletta, ma senza salirci: la usava come un deambulatore, appoggiandovisi in modo da poter raddrizzare un po' la schiena e riuscire così a vedere dove andava mentre camminava.
Quando mio padre nel '90 comprò un televisore nuovo, portò il nostro vecchio Telefunken alla zia Umbertina, che scoprì così la tv a colori. Era appassionata di calcio. Quell'estate si gustò i Mondiali a colori e, se passavi davanti casa sua, la sentivi fare il tifo come un ultrà.
Veniva a casa mia ogni giorno: alle nove di mattina la vedevi arrivare attaccata alla sua bici e non se ne andava fino all'ora di pranzo. Prima di partire, però, meteva a cuocere la minestrina. Immaginatevi che brodaglia dovesse essere dopo tre ore di cottura. In realtà ai suoi tempi era stata una cuoca bravissima, tant'è che le sue ricette fanno ancora parte della tradizione di famiglia che custodisco gelosamente. Chi ha assaggiato le mie lasagne, sa di cosa parlo: lì dentro sopravvivono ancora i segreti culinari della cara zia Umbertina.
Era molto affezionata alla mia bisnonna, sua cognata, che abitava con noi e che morì nel 1991. Sentirle parlare tra di loro era come salire su una macchina del tempo. Un conto è studiare la prima e la seconda guerra mondiale sui libri di storia, un conto è sentirsele raccontare da chi le ha vissute entrambe. Della prima si ricordavano poco, perché nel 1914 erano bambine, ma della seconda avevano un ricordo vivissimo ed i loro racconti erano lucidi ed originali, perché ognuna di loro aveva vissuto la guerra in modo diverso e personale; certi racconti non si trovano quasi mai sui libri di storia e sono stata davvero fortunata ad averli potuti ascoltare in prima persona.
Quando la mia bisnonna morì, la zia continuò a venire a casa nostra ogni giorno, perché considerava mia nonna come una figlia. La sua vera figlia, Anna, era morta all'età di 30 anni; la zia Umbertina raccontava sempre che alla nascita un ginecologo-macellaio le aveva parzialmente occluso una vena usando il forcipe. Questo aveva fatto sì che la povera bambina crescesse con un grave ritardo mentale e che, all'età di trentanni, la vena si occludesse del tutto facendola morire prematuramente. Mia nonna aveva la sua stessa età, erano nate entrambe nel 1937, e quindi per questo motivo era la nipote preferita della zia: in qualche modo le ricordava la figlia tanto amata e perduta.
Tuttavia, nonostante le tragedie che aveva vissuto, non aveva perso il sorriso, né la voglia di cantare. Adorabile zia. Cantava sempre. Ovviamente sapeva solo le canzoni dei suoi tempi, di quando era stata giovane, e quindi ogni giorno partiva col "Tango delle capinere",  passava poi a "Parlami d'amore Mariù", poi a "Stramilano" e via discorrendo.
È morta nel 1999, all'età di 89 anni. Non le ho mai detto che le volevo bene, ma credo che lo sapesse da sola: appena potevo, fin da bambina, scappavo a casa sua per farmi raccontare "le storie tristi" perchè sapeva raccontarle col sorriso. Io le chiedevo mille "perché" (eh sì, io ero una di quelle bambine che non facevano che chiedere il perché di tutto, croce di mia madre, delizia di mio padre) e lei rispondeva sempre senza mai perdere la pazienza. Non ho mai conosciuto una persona più buona di lei. Anche se quando è morta avevo 20 anni, e quindi ero già adulta, mi rendo conto che non si è mai troppo grandi per perdere le persone a cui davvero vogliamo bene e che solo col tempo ci accorgiamo di tutte le occasioni che abbiamo perduto quando erano ancora in vita. Arriva sempre troppo tardi la presa di coscienza. 

mercoledì 9 maggio 2012

Come se mi conoscesse, come se lo conoscessi...

Se esiste un poeta che non è affatto adatto a tirarsi su il morale, questo è senza dubbio Giovanni Pascoli.
Dovrei evitarlo come la peste in questo periodo. E invece...
E invece lo amo.
Ultimamente, a parte le rare volte in cui qualche amico mi trascina fuori casa quasi tirandomi per i capelli (una ragione in più per andare a tagliarseli), passo le mie serate lavoricchiando (mi tocca fare i compiti per le ragazzine cui faccio ripetizioni), studiando e leggendo libri su libri. Mi strafaccio di letteratura, mi stordisco di poesia, mi sballo con metafore, chiasmi, rime e assonanze.
Scelgo la solitudine, o meglio ancora, scelgo la compagnia di chi non può deludermi e soprattutto non può ingannarmi.
In questo contesto, non avrei potuto trovare un compagno migliore del buon Giovannino.
Posso senza dubbio affermare che è stato grazie a lui se mi sono avvicinata alla poesia. Avevo sette anni, e mio padre mi recitò a memoria "X agosto". Credo che quella sia stata la prima volta in cui piansi per qualcosa che non era capitata a me. Non per i litigi con le amichette, non per una bambola che si era rotta o un gelato che mi veniva negato, piansi per quella rondine che tornava dai suoi piccoli e che venne uccisa; piansi pensando al suo nido "nell'ombra che attende,  che pigola sempre più piano".
 Chi conosce bene Pascoli, o anche chi lo conosce un po' meno bene, sa che la sua vita è stata costellata di tragedie. Leggendo la sua opera, spesso diventa impossibile sostenere la tristezza che la pervade. Ci sono momenti in cui ti toglie il fiato.
Ecco, io vado alla ricerca di quei momenti. Io voglio piangere. Forse perché quelle lacrime valgono la pena di essere versate, forse perché avendone versate tante inutilmente, quelle non le sento sprecate. O forse più semplicemente non mi sento sola: leggo frasi che mi sento addosso come un pigiama comodo, frasi che percepisco come un abbraccio consolatorio. C'è stato qualcuno che ha dato voce alle mie stesse sofferenze e lo ha fatto in un modo magistrale, come se mi conoscesse, come se io conoscessi lui.
Anche Pascoli sceglieva la solitudine, anche lui aspettava la sera per rifugiarsi nei ricordi, indugiando su quelli più dolorosi, forse perché solo così trovava un po' di sollievo alla sofferenza e si sentiva un po' più vicino a tutte le persone che amava e che aveva perso.
Il tempo non ha mai guarito le sue ferite, come spero che invece faccia con me. Ma nel frattempo, quante altre notti dovrò passare "al mio cantuccio d'ombra romita"?

La pendola batte
nel cuor della casa.
Ho l'anima invasa
dal tempo che fu.
La pendola batte
                            ribatte:
                         mai più... mai più...
                         mai più... mai più...

La pendola oscilla
nel cuor della notte.
Tra l'ombre interrotte
chi viene? sei tu?
La pendola oscilla
                            tranquilla:
                         mai più... mai più...
                         mai più... mai più...

Sei forse qualcuno
che amai? che perdei?
che torni? chi sei?
che torni quassù?
Un bacio! sol uno!
                             sol uno!
                         mai più... mai più...
                         mai più... mai più...

Un bacio! oh! nemmeno!
Vederti soltanto!
sentire il tuo pianto
che m'ami anche tu!
Ridirtelo almeno!
                            Nemmeno!
                         mai più... mai più...
                         mai più... mai più...

G. Pascoli,  "Mai più... mai più..." (1898) tratta da  "La befana ed altro"
                     

venerdì 4 maggio 2012

Sorridi, Michela!

Oggi mia madre mi ha costretta a rimettere a posto i cassetti del mobile in salotto, da sempre deputati a contenere le foto di famiglia. Il che vuol dire che per tre ore mi sono fatta un tuffo nei ricordi. È scesa qualche lacrima di fronte alle foto di chi non c'è più; ci sono stati racconti su fatti ed avvenimenti immortalati di cui non ero ancora a conoscenza; qualche sorriso di fronte alle foto della mia vecchia gattina e del cocker che le voleva tanto bene; un po' di nostalgia per le immagini di vacanze spensierate insieme ad amici mai più rivisti... e poi, la vergogna! Ci sono mille e più foto mie. Da figlia unica e unica nipote dei nonni materni, credo di essere stata la bambina più fotograta sulla faccia della terra. Ci sono foto di me ad un mese, ad un mese e due giorni, ad un mese e tre giorni e così via: mentre faccio il bagnetto, mentre mangio, mentre piango, mentre urlo. E poi tutta le serie di foto "da bambola". Ogni compleanno è stato immortalato, ogni nuovo vestitino anche, ogni festa, recita o saggio. Sempre messa in posa come una bambola di porcellana, di quelle che le vecchie signore si tengono sul letto, avete presente? Ogni domenica, prima di uscire, c'era per me la tortura della seduta fotografica con mio padre. E tutte queste foto, ovviamente, vengono spesso mostrate a parenti ed amici, facendomi sprofondare nella vergogna... Ma perché?

Voglio dire, c'era proprio bisogno di fotografare tutto? Io sono stata bambina negli anni '80, ovvero nel periodo più buio che esista per la moda. C'era proprio bisogno di una foto come questa?


Ero in quinta elementare, durante una recita scolastica. Maxi maglietta informe bianca e verde acido, cerchietto blu con fiocco a pois inguardabile. Espressione smarrita di chi pensa "quando finisce questa stupidata?" e capelli spettinati.
No, non c'era bisogno di una foto del genere. Così come si sarebbe potuta evitare questa:


Primo giorno di scuola in quarta elementare. Rotornano i pois, signore e signori, nella maglietta sotto il grembiulino. Grembiulino che, ORRORE, aveva Minnie ricamata! Ma in quarta elementare con Minnie sul grembiule è un suicidio sociale! Come hanno potuto mandarmi a scuola così? E poi perché fotografare il primo giorno di scuola? Perché non l'ultimo, che almeno sarei stata felice?
Continuiamo la carrellata di scatti inutili:



Qui ero più piccola, circa 6/7 anni. L'occasione era proprio quella di una delle mille mila sedute fotografiche della domenica di cui vi parlavo. Lo sguardo trasuda felicità e voglia di farsi fotografare. Il vestito era carino, ma era di quelli che mi costringevano a sentire mia madre urlare ogni secondo: "Non correre, non sederti lì, stai composta!". Due palle. Era necessaria una foto che testimoniasse il grado del rompimento di scatole della giovane Michela settenne, no?
Ma arriviamo a quelle che, ogni volta che vengono tirate fuori, mi tolgono anni di vita:









Lo so che state ridendo. Era un saggio di ginnastica artistica, ma non so capire perché, invece di esibirci coi nastri, la palla e la trave, siamo tutte vestite con delle gonnelline a mo' di codina, abbiamo la cresta in testa, i pon-pon in mano e dobbiamo ballare al ritmo di "...mentre la tv diceva, mentre la tv cantava, bevila perché è tropicana yeah!" Ovviamente poi, per rendermi meno riconscibile, mia madre scelse di farmi indossare un body rosso fuoco... e sì, avevo la faccia truccata, perché credo che dovessimo imitare le brasiliane o qualcosa del genere.
No comment.

Chiudo questa carrellata con una foto eloquente. Era il carnevale del 1986, avevo un bel vestito da damina con tanto di cappellino e ombrellino, mio padre mi misa in posa e mi disse "dai Michela, sorridi". Ecco il risultato: questa non sono io, questa è la vera Bimba Cattiva! Hasta la Bimba Cattiva siempre!







mercoledì 2 maggio 2012

Fine pena mai.

Ci sono giorni in cui tutto mi sembra impossibile da superare. Oggi è uno di questi. Sarà che non mi sento bene e che mi è presa una vera a propria crisi isterica perché ho il diabete, questa maledetta malattia che non ti dà scampo: quando credi di stare meglio, lei ti ricorda che è lì e sta lavorando nell'ombra. Inutile ignorarla, tanto lei è più forte. Inutile far finta che non ci sia, lasciarla inascoltata, girare la testa dall'altra parte: prima o poi succede sempre qualcosa che ti costringe a guardarla in faccia.
La sete è una delle cose che meno sopporto. Quando la glicemia si alza troppo inizi a sentire la bocca impastata, la gola in fiamme e cominci a bere senza dissetarti mai davvero. È una tortura. In realtà il diabete mi dà tantissimi altri problemi ben più gravi, ma la sete è la cosa più fastidiosa per me. Sopporto le infezioni, sopporto l'astenia, sopporto perfino la cattiva circolazione o la vista che si appanna, ma la sete, quella no.
Quando mi prendono le crisi, poi, non tollero che tutto il mondo intorno a me sembri dipendere dallo zucchero: vai a casa di un amico e ti tocca dire di no a un succo di frutta, entri in un bar e non c'è il dolcificante, guardi una trasmissione di cucina e ti rendi conto quanti piatti a te sarebbero preclusi perché ormai lo zucchero lo mettono anche nella preparazione della caponata.
Inutile poi dire che non sopporto le battute che vengono fatte sul diabete: "mamma mia come sei sdolcinato, ora mi viene il diabete!" "il diabete viene se mangi troppi dolci!" "Hai il diabete? bé, che sarà mai, basta evitare di mangiare la nutella".
La cosa che davvero manca a chi è malato di diabete e che rende questa malattia per molti davvero insopportabile è la speranza. La speranza di guarire o di migliorare. Quelle due parole, "per sempre", sono un macigno sul cuore difficile da sopportare. Sarai per sempre costretto a fare i conti con questa malattia e con tutte le complicanze che ti porterà, sarai per sempre costretto a sentirti solo, non compreso, ed a sapere che ogni sgarro lo pagherai carissimo. Sarai per sempre costretto a bucarti la pelle ogni giorno ed a vivere con la consapevolezza che potresti svegliarti una mattina con una nuova complicanza. Sai che, per sempre, la tua vita sarà fatta di rinunce.
Ci sono giorni in cui non accetto di essere malata. Oggi è uno di questi.

martedì 1 maggio 2012

Porno prêt-à-porter

Ieri sera guardavo alla tv quella magnifica trasmissione che è "Stracult" (su Raidue, ogni lunedì dalle 23,30 in poi) e a fine serata, quindi ad un orario vietatissimo ai minori, l'argomento che è stato affrontato è stato quello della pornografia. Pensavo di sapere, più o meno, quasi tutto. Invece ho scoperto che esistono diverse scuole di pensiero, tant'è vero che a un certo punto della serata non capivo più se stavo assistendo ad una trasmissione televisiva o ad una lezione universitaria di filosofia.
In particolare ieri sera si parlava di questo nuovo movimento, definito "quasi ascetico perché ti permette di raggiungere una dimensione ultraterrena, para-femminista, da contrapporre all'industra pornografica basata sul maschilismo": il post-porno.
Se vi state domandando, come ho fatto io, se chi pratica il post-porno fa sesso davanti alle telecamere, la risposta è sì. Ma se siete di quelli che non sanno andare oltre questo, se vi fermate solo all'atto puro e semplice della penetrazione, vuol dire che non siete sensibili quel tanto che basta per comprendere davvero la filosfia del post-porno. Sappiate dunque che siete ancora schiavi dell'industra del porno che non è nata con l'intento di liberare la sessualità degli individui, ma al contrario di imporre un modello basato sulla ricerca del piacere solo maschile, laddove la donna è solo un corpo (o meglio ancora, uno stereotipo: la studentessa, l'infermiera, la coniglietta) sempre perfetto e ansimante. Questi corpi esasperatamente sessualizzati, laddove gli attributi sia maschili che femminili sono portati all'estremo, hanno fatto sì che le povere persone normali si sentissero escluse ed emarginate. Ed è così che è nato il post-porno. La pornografia maschilista umilia le persone normali e queste si ribellano, mostrando al mondo intero com'è fatto il vero sesso, spronando la gente a diventare la pornostar ideale del proprio partner, inventando nuove forme di pornografia collettiva, condivisa e aperta a tutti. Un porno prêt-à-porter, un porno per tutti. C'è speranza, insomma.
Pensavate che fossero solo esibizionisti che, essendo stati scartati per girare porno tradizionali, si fossero arrangiati con telecamere casalinghe? Sbagliato. signore e signori! Questi sono dei rivoluzionari, questi sono eroi!
Grazie al post-porno il mondo sarà un posto migliore.