mercoledì 18 giugno 2014

Delitto di Motta Visconti: le conseguenze del non amore

Quattro giorni fa, mentre tutta Italia era in trepida attesa della partita di esordio della nostra Nazionale ai Mondiali in Brasile, a Milano un uomo di 31 anni, padre e marito esemplare, ha avuto un rapporto sessuale con la moglie e poi, ancora in mutande, è andato in cucina, ha preso un coltello ed ha ucciso prima lei e poi i suoi due bambini piccoli che dormivano al piano di sopra. Dopodiché si è cambiato, è uscito ed ha raggiunto gli amici al pub per guardare la partita.
Ci sarebbero molte cose da dire su questa storia  purtroppo simile a molte altre che in questi anni hanno riempito le pagine di cronaca nera; e le cose da dire, in fondo, rimangono sempre le stesse: è un mostro, si merita punizioni esemplari, è una cosa orribile, come si fa a sterminare la propria famiglia... e via dicendo.
In questo specifico caso, però, sono due le cose che mi hanno colpito in modo particolare. La prima è l'uso (e l'abuso) della parola "amore". Il marito "ha fatto l'amore con la moglie", è sempre stato "un padre amorevole", ha commesso quel tremendo delitto dopo "essersi innamorato di una collega di lavoro". Ecco, la prima cosa che ho pensato è che l'amore, in tutta questa vicenda, non c'entri proprio niente. Un uomo capace di amare davvero, pur amando magari in modo imperfetto (ma poi qual è il giusto modo di amare?), non potrebbe mai commettere una mattanza del genere giustificandosi poi con un "ho ucciso lei perché non avevo il coraggio di chiedere il divorzio e i figli perché comunque col divorzio restano lo stesso"; non potrebbe mai uccidere due bambini nel sonno e poi andare ad esultare per un gol. Un uomo capace di amare, non potrebbe uccidere in nome dell'amore, anche se si tratta di un amore clandestino condannato dalla morale e dalla società. Se lo fa è perché non ama. Nemmeno se stesso.
Quell'uomo ha ucciso in nome del non amore, un non sentimento subdolo e spaventoso: proprio perché sospeso in quella terra di mezzo chiamata apatia, non è condannato con ferocia, non è considerato un'aberrazione, non è additato come il male peggiore. Eppure lo è.
Quell'uomo non amava se stesso, la sua vita, la sua famiglia e nemmeno l'altra donna; e ha semplicemente reagito come se fosse in un videogioco: non mi piace quello che sto facendo, cancello tutto e ricomincio. Ho letto da qualche parte l'opinione di uno psichiatra, che è agghiacciante: "voleva tornare a giocare da solo". Ecco la vera parola che dovrebbe sostituirsi ad "amore": "ha giocato con la moglie, giocava sempre coi bambini, voleva cominciare a giocare con un'altra".

La seconda cosa che mi ha particolarmente colpito in questa bruttissima storia è stata che lei, la moglie, quando si è sentita colpire al collo da una coltellata, per prima cosa non ha chiesto aiuto, non ha cercato di scappare. No, lei ha chiesto ripetutamente "perché". Quasi come a dargli una possibilità di giustificarsi, quasi come una bambina che, punita dai genitori, chiede il motivo pensando "devo aver fatto qualcosa di brutto, altrimenti mamma e papà non sarebbero così arrabbiati con me!". C'è un atto di profonda fiducia in quel chiedere "perché". Cosa ho fatto? Ti sei arrabbiato? Non mi faresti una cosa del genere se non avessi fatto qualcosa di grave! Tu mi vuoi bene, se arrivi a farmi questo ci deve essere un perché.
Questo pensiero mi strazia: una donna colpita a morte continua a dare la possibilità al suo assassino, che è anche suo marito e padre dei suoi figli, di darle una spiegazione come se fosse implicito che abbia sbagliato lei.
Chissà se prima di morire, mentre sicuramente pensava con terrore a quello che, dopo, quel coltello avrebbe fatto ai suoi bimbi, ha capito quello che noi, dopo quattro giorni, ancora fatichiamo ad accettare: non c'è un perché. Dovremo imparare a rassegnarci all'incomprensibile.