mercoledì 9 maggio 2012

Come se mi conoscesse, come se lo conoscessi...

Se esiste un poeta che non è affatto adatto a tirarsi su il morale, questo è senza dubbio Giovanni Pascoli.
Dovrei evitarlo come la peste in questo periodo. E invece...
E invece lo amo.
Ultimamente, a parte le rare volte in cui qualche amico mi trascina fuori casa quasi tirandomi per i capelli (una ragione in più per andare a tagliarseli), passo le mie serate lavoricchiando (mi tocca fare i compiti per le ragazzine cui faccio ripetizioni), studiando e leggendo libri su libri. Mi strafaccio di letteratura, mi stordisco di poesia, mi sballo con metafore, chiasmi, rime e assonanze.
Scelgo la solitudine, o meglio ancora, scelgo la compagnia di chi non può deludermi e soprattutto non può ingannarmi.
In questo contesto, non avrei potuto trovare un compagno migliore del buon Giovannino.
Posso senza dubbio affermare che è stato grazie a lui se mi sono avvicinata alla poesia. Avevo sette anni, e mio padre mi recitò a memoria "X agosto". Credo che quella sia stata la prima volta in cui piansi per qualcosa che non era capitata a me. Non per i litigi con le amichette, non per una bambola che si era rotta o un gelato che mi veniva negato, piansi per quella rondine che tornava dai suoi piccoli e che venne uccisa; piansi pensando al suo nido "nell'ombra che attende,  che pigola sempre più piano".
 Chi conosce bene Pascoli, o anche chi lo conosce un po' meno bene, sa che la sua vita è stata costellata di tragedie. Leggendo la sua opera, spesso diventa impossibile sostenere la tristezza che la pervade. Ci sono momenti in cui ti toglie il fiato.
Ecco, io vado alla ricerca di quei momenti. Io voglio piangere. Forse perché quelle lacrime valgono la pena di essere versate, forse perché avendone versate tante inutilmente, quelle non le sento sprecate. O forse più semplicemente non mi sento sola: leggo frasi che mi sento addosso come un pigiama comodo, frasi che percepisco come un abbraccio consolatorio. C'è stato qualcuno che ha dato voce alle mie stesse sofferenze e lo ha fatto in un modo magistrale, come se mi conoscesse, come se io conoscessi lui.
Anche Pascoli sceglieva la solitudine, anche lui aspettava la sera per rifugiarsi nei ricordi, indugiando su quelli più dolorosi, forse perché solo così trovava un po' di sollievo alla sofferenza e si sentiva un po' più vicino a tutte le persone che amava e che aveva perso.
Il tempo non ha mai guarito le sue ferite, come spero che invece faccia con me. Ma nel frattempo, quante altre notti dovrò passare "al mio cantuccio d'ombra romita"?

La pendola batte
nel cuor della casa.
Ho l'anima invasa
dal tempo che fu.
La pendola batte
                            ribatte:
                         mai più... mai più...
                         mai più... mai più...

La pendola oscilla
nel cuor della notte.
Tra l'ombre interrotte
chi viene? sei tu?
La pendola oscilla
                            tranquilla:
                         mai più... mai più...
                         mai più... mai più...

Sei forse qualcuno
che amai? che perdei?
che torni? chi sei?
che torni quassù?
Un bacio! sol uno!
                             sol uno!
                         mai più... mai più...
                         mai più... mai più...

Un bacio! oh! nemmeno!
Vederti soltanto!
sentire il tuo pianto
che m'ami anche tu!
Ridirtelo almeno!
                            Nemmeno!
                         mai più... mai più...
                         mai più... mai più...

G. Pascoli,  "Mai più... mai più..." (1898) tratta da  "La befana ed altro"
                     

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