mercoledì 30 novembre 2011

Cose da NON fare prima dei 30 (e anche 40, 50, 60...)

Andare, a 4 anni, dalla maestra dell'asilo e confessarle che vi siete fatte tirare giù le mutandine da Francesco. Correre sul brecciolino e inciampare. Correre intorno al tavolo di cucina e partire per la tangente andando a sbattere contro il frigorifero. Aprire i regali di Natale il giorno prima, quando sono ancora nell'armadio dei vostri genitori. Giocare a pallavolo in salotto. Tenere un diario segreto dimenticandosi di chiuderlo col lucchetto. Dire a vostro padre "ormai ho 15 anni, sono grande!" presentandovi con tre chili di mascara sugli occhi. Ridergli in faccia quando vi dice di andarvi a lavare. Ridergli di nuovo in faccia quando vi dice che è meglio se smettete di ridere. Bucare a scuola e, per paura che vengano avvertiti i genitori dell'assenza, chiamare a casa chiedendo "tutto bene??". Fare l'autostop insieme a un' amica, per gioco, pensando "tanto non si ferma nessuno! ahaha!". Credere che il primo che vi fa gli occhi dolci sia l'uomo della vostra vita. Credere che il secondo che vi fa gli occhi dolci sia l'uomo della vostra vita. Credere che chiunque vi faccia gli occhi possa diventare l'uomo della vostra vita. Comprare una felpa e lasciarla in un bar con ancora il cartellino attaccato e lo scontrino nel sacchetto. Comprare un paio di scarpe senza prima assicurarsi che, due negozi più giù, non le vendano a metà prezzo. Aprire una lattina di Cocacola e poi metterla nello zainetto pensando "se lo tengo diritto non si versa". Aprire la porta al vicino di casa figo mentre avete le mutande sporche in mano. Dire ad un professore universitario che il suo libro non lo comprate e, casomai, farete le fotocopie. Comprare un bagnoschiuma alla mela verde e andare in giro con addosso l'odore di un detersivo per piatti. Entrare in un negozio, far cadere un vaso in vetro di murano e tentare di scappare. Parlare male di qualcuno senza prima esservi assicurati che non sia alle vostre spalle. Parlare male di qualcuno senza prima esservi assicurati che non vi sia partita una chiamata sul cellulare per sbaglio. Inviare un sms alla persona sbagliata. Negare l'evidenza. Negare di aver negato l'evidenza.
(continua...)

martedì 29 novembre 2011

La paura di aprire un cassetto

Quando una cosa sta finendo, è difficile dirsi addio. Ci sono persone che hai imparato a conoscere, con cui hai fatto un giretto su questo continuo otto volante che è la vita e che sono entrate a far parte della tua quotidianità, e ad un certo punto qualcosa si rompe nell'ingranaggio che credevi perfetto e non c'è niente da fare, per quanto tu cerchi di aggiustarlo, c'è sempre qualcosa che non va. Ti viene allora da pensare che, invece di vederlo morire giorno per giorno, dovresti dare tu il colpo definitivo, via il dente via il dolore, un colpo e non ci si pensa più. E invece, purtroppo, ci pensi eccome. E di solito ti vengono in mente solo le cose belle, le cose che perderai insieme alla persona alla quale stai dicendo addio, le cose che sono entrate a far parte di una vita comune e che da quel momento in poi diventeranno solo tue. Uno sguardo, un'espressione, un certo modo di scherzare insieme, quella volta che ti ha insegnato a come superare un rallentantore senza sfasciare le sospensioni, una canzone che entrambi adorate, quella fotografia scattata in un momento spensierato. Ci sono strade in cui non potrai mai più passare senza sentire quella tremenda sensazione alla bocca dello stomaco che pare si chiami nostalgia, ma secondo me ha più il sapore dell'angoscia. Sai che un giorno aprirai un cassetto e ci troverai dentro un biglietto, un regalo, una conchiglia che hai raccolto un giorno in cui eravate insieme; sai che per strada ti capiterà di sentire un profumo che ti ricorderà quella persona; sai che vedrai un film e penserai a tutte le volte in cui ne avete parlato insieme. E allora lì diventa difficile dire quell'addio... Addio non solo a te, ma a tutto ciò che potevi continuare ad insegnarmi, a tutte le cose che avremmo potuto ancora dirci, a quel viaggio on the road che non faremo mai, alle feste che non condivideremo, ai momenti di dolore in cui non potremo contare sull'aiuto reciproco.
Diventa difficile.
Sarà per questo che si rimanda, non è ancora il momento, no, un altro giorno ancora, solo un altro giorno, per la paura di dover affrontare il vero momento terribile dell'addio: quello successivo, quello in cui il "noi" diventa giorno dopo giorno "io".

lunedì 28 novembre 2011

Esercizi di buonumore

Quanto è difficile pensare positivo quando si sta male. Specie se è sera, specie se quel giorno le cose sono andate un po' peggio del solito, specie se non vedi all'orizzonte, quel giorno, la famosa "fine del tunnel". Ed oggi per me è stato uno di quei giorni lì.
Ma voglio provare ad esserlo, positiva, stasera. Voglio fare questo esercizio di buonumore, sfidare me stessa e la mia perenne visione cinica di una che non si fida di nessuno e pensa sempre al peggio.
Pensando alla mia vita passata, non posso che essere soddisfatta dell'infanzia e dell'adolescenza che ho avuto: figlia unica, viziata ma non troppo, adorata dai genitori e dai nonni, che mi hanno insegnato che non si può avere tutto senza farmi mai mancare nulla. Ho avuto un'educazione rigidina che mi ha fatto sviluppare un caratterino ribelle, ma di quelli ribelli davvero, non di quelli del tipo "mi faccio i capelli blu e rispondo tra i denti vaffanculo!". No, di quelli tipo "tu mi dici di fare questo e, se lo ritengo giusto, lo faccio, se non lo ritengo giusto, non lo faccio e non lo farò mai nemmeno se mi torturi". E vi posso assicurare che, con mio padre, è stata sempre una guerra di nervi, come giocare a scacchi con un giocatore che ti anticipa le mosse e tu devi imparare ad anticipare le sue, prevedere quali mosse lui penserà che farai tu, e quindi spiazzarlo. Sono solita dire che mio padre non mi abbia impartito proprio un'educazione, ma più un addestramento. Sì, era militare. E la prima recluta sono sempre stata io. Ma questa cosa mi ha temprata. Mi ha fatta diventare una che non molla mai, una che difficilmente viene messa di mezzo, una che sa quello che vuole e lotta fino alla fine per ottenerlo.
Non mi sono mai piaciuta fisicamente. Sono sempre stata cicciottella e da quel punto di vista la mia autostima era sotto lo zero. Guardandomi adesso nelle vecchie fotografie, non posso far altro che notare che ero una bambina deliziosa. E lo dico senza alcuna presunzione. Ero decisamente deliziosa, forse proprio perché non ne ero consapevole. Ci ho messo 32 anni a vedermi bella; non perfetta, badate bene. Bella, con i difetti che ho. Ci sono voluti tre decenni e la scoperta di una malattia che mi fa tribolare non poco. Quando ti rendi conto che hai il diabete, una malattia "grave e incurabile", subdola, che va tenuta sotto controllo perché non ti dà troppi problemi nell'immediato, ma non ti permette di dimenticarti di lei, perché poi, negli anni, tutti gli "strappi alla regola" che fai li sconti uno per uno, le prospettive ti cambiano radicalmente. Io il diabete lo odio, per i motivi che ho appena elencato, ma lo amo al tempo stesso, perché mi ha insegnato che ci sono cose ben più gravi del fatto di non potersi mettere una minigonna; questo mi ha permesso di fare pace col mio corpo, di guardarmi allo specchio e vedermi femminile e aggraziata anche con quei maledetti chili in più, coi cuscinetti e la cellulite. Mi ha permesso di capire che, se non cominci a vederti bella tu, non ti vedranno bella nemmeno gli altri. So che sembra una banalità da pubblicità progresso, ma è la pura verità.
Non sono diventata medico, e successivamente non ho nemmeno sposato un riccone e non ho ancora fatto figli. Insomma, non ho rispettato nessuno dei piani che mi ero fatta a 15 anni. Ho scelto una facoltà definita da molti "inutile" (Lettere Moderne) perché non ti insegna a fare nulla. E per di più, non avrò nessun futuro come insegnante, considerando il periodo nero per i docenti italiani. Ma ho imparato tante cose che non avrei mai immaginato esistessero e ho capito che la vera cosa che ti rende libero, in tutti i sensi in cui uno voglia intenderlo, è sapere, apprendere, conoscere. Sono fiera delle cose che ho studiato e al tempo stesso mi sento infinitamente piccola di fronte a tutte quelle cose che so di non sapere. Tutto questo non lo avrei mai capito se non avessi fatto quell'"inutile" facoltà. E non considero gli anni di studio anni "persi", perché mi hanno permesso di diventare la persona che sono adesso e vi dirò: a me quella persona piace e non la cambierei nemmeno di una virgola!
Ho amato tante persone e sono stata a mia volta amata, ho avuto amici che mi hanno "deluso, tradito, ingannato" ma anche quelli che mi sono stati vicini sempre e comunque. 
Non c'è niente di cui lamentarsi, quindi. Sono stata abbastanza positiva? Vi confesso che è stato faticoso, ma alla fine sono riuscita a convincere anche me stessa e, per stasera, andrò a dormire più tranquilla. E da domani dovrò ricominciare a convincermi, che tanto sono una che non si fida mai, l'ho detto!

domenica 27 novembre 2011

Cose da fare prima dei 50

Trovare un modo sicuro per fare 6 al superenalotto. Tatuarsi Trilly sulla spalla destra. Fare Bunjy jumping almeno una volta. Accendere l'idromassaggio dopo aver svuotato un flacone di bagnoschiuma nella vasca a riempire di schiuma tutto il bagno. Partire per un viaggio on the road in America: prima tappa a New York per lo shopping sfrenato. Lavorare a EuroDisney per almeno un anno e vivere in un piccolo appartamento molto bohémien a Paris. Imparare a fare i dolcetti decorati con la glassa, i fiorellini e le farfalle di zucchero e aprire una piccola pasticceria. Andare in Australia per vedere se davvero l'acqua gira al contrario nel lavandino. Leggere "Guerra e Pace". Guardare "Casablanca". Abitare per un po' in una casa in riva al mare. Imparare a camminare sui tacchi 10. Trovare il rossetto perfetto. Incontrare un parrucchiere che capisca le cose al volo e non mi deluda mai. Disegnare i vestiti per la Barbie. Scrivere un libro. Comprare una cappelliera. Comprare i cappelli per riempire la cappelliera. Tenere una rubrica per Vanity Fair. Andare al Louvre e riuscire ad avvicinarsi alla Gioconda col luminol per vedere se davvero ci sono nascosti messaggi in codice di Leonardo. Entrare nell'Area 51. Diventare organizzatrice di matrimoni. Fare un giro sulle montagne russe più veloci del mondo. Fare un giro sulle montagne russe più alte del mondo. Provare a cantare dopo aver respirato l'elio. Fare un giro su una Delorean volante. Andare a un concerto di Madonna e cantare "Like a Prayer" insieme a lei (sul palco). Riuscire a fare mille cose al giorno senza che mi si sfaccia il trucco e senza sudare mai. Essere aspettata fuori dall'ufficio (nel quale, insieme a me, lavorano mille altre donne) da un uomo bellissimo e con la Ferrari. Trovare finalmente l'Orsa Minore. Ricordarsi sempre alla prima i nomi dei sette nani e anche quelli dei sette Re di Roma. Imparare a girare la pasta della pizza su un dito. Riuscire a piangere a comando...
(continua...)

sabato 26 novembre 2011

Abbacadabra!

Reduce da una serata divertente e spensierata, in compagnia di amici simpatici, vi scrivo con ancora nelle orecchie "you are the dancing queen, young and sweet, only seventeen": sì, sono andata a gustarmi lo spettacolo di una cover band degli Abba e, come al solito, sono uscita dal locale nel quale si esibiva la band con la voglia di saltellare e cantare a squarciagola (e non l'ho fatto solo perché erano le due del mattino e accanto al locale c'è una stazione di polizia!).
La magia degli Abba è contagiosa! Eppure "sono solo canzonette", dal testo spesso elementare, contenuti non certo impegnati e melodie super orecchiabili (anche se gli arrangiamenti e i cori sono decisamente di qualità elevata). 
I 375 milioni di dischi venduti parlano da soli: gli Abba portano allegria e positività. Chiunque sia andato a vedere "Mamma mia!" (sia il musical in teatro, sia la versione cinematografica con l'immensa Meryl Streep) ne è uscito con il sorrisone sulle labbra. Una sferzata di buonumore senza usare alcun tipo di droga sintetica, senza spendere un patrimonio e senza friggersi il cervello con il bum-bum discotecaro. Due ore di musica ininterrotta che ti travolgono e ti trascinano negli anni '70: zeppe, pantaloni a zampa, costumi eccessivi, tuniche luccicanti e hippie style!
Mi sono svegliata con la voglia di farmi un tatuaggio, di mettermi jeans sdruciti e scarpe da tennis e partire con lo zaino in spalla, di cantare in riva al mare intorno ad un falò, di andare in cerca di mercatini vintage. Di essere giovane e spensierata. Di sentirmi libera.
Ecco qual è la vera magia degli Abba: ti regalano per un po' l'illusione di un mondo in cui i problemi non esistono o sono facilmente risolvibili cantando una canzoncina con indosso una tunica multicolor e camminado a piedi nudi sull'erba.
E allora, togliamoci le scarpe e balliamo!


venerdì 25 novembre 2011

Silenzio, parla Hikmet

Oggi sono a corto di idee. Mi suggeriscono che, quando si è a corto di idee, si può parlare proprio di quello; io invece voglio condividere con voi una poesia. Non trovando le parole per comunicare qualcosa di interessante, stasera le prendo in prestito da Nazim Hikmet, poeta e scrittore turco naturalizzato polacco, nato nei primi del '900 e morto negli anni '60; amico di Neruda, allievo di Majakovkij, si oppose al regime di Kemal Ataturk. Fu condannato a 28 anni di carcere scontandone 13 in Anatolia, prima che l'intervento di una commissione internazionale composta tra gli altri da Tzara, Picasso, Sartre riuscisse a favorirne la scarcerazione. Nella sua vita conobbe la tortura, la persecuzione, la povertà e l'esilio. Eppure non perse mai la "voglia di cantare", come racconta  Neruda. A lui la parola. Buona serata a tutti.


Alla vita
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.


La vita non é uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla é più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.


giovedì 24 novembre 2011

Donne che odiano le donne

"Fra uomini esiste, per natura, soltanto indifferenza; ma fra donne, già per natura, vi è inimicizia... Anche solo incontrandosi per strada, si guardano a vicenda come guelfi e ghibellini." Così scriveva Schopenhauer. E quanto aveva ragione!
Ma cos'è che spinge le donne a guardarsi in cagnesco, anche se non si conoscono? Invidia? Può essere. Anche se io, quando vedo una ragazza con due metri di gambe che cammina su tacchi 12 come se fosse su una nuvola, mentre a me tocca portare pantaloni che nascondano la cellulite e ballerine per non slogarmi le caviglie, sì, lo ammetto, la guardo con invidia, ma un'invidia "sana", del tipo "vorrei essere come te!" (ma solo perché sono fondamentalmente buona, non come la commessa della profumeria in cui a volte vado che, dall'alto dei suoi 50 anni mal portati, continua a consigliarmi creme antirughe. A me! Maledetta...).
C'è poi quell'antipatia di tipo "educativo": a volte prenderei a schiaffoni certe ragazzine che si ostinano a mettersi i pantaloni a vita bassa anche se hanno il fisico dei lottatori di sumo. In quel caso non si tratta di invidia. Si tratta di provare rabbia di fronte allo spettacolo orripilante di una donna che si rende ridicola.
Ma l'antipatia innata tra donne va oltre questo. Non nasce necessariamente da uno spirito critico troppo spiccato o dall'invidia. A volte ci sono donne che non sono particolarmente belle ma nemmeno brutte, che non si vestono male e che camminano semplicemente per strada pensando ai fatti loro, eppure ci ritroviamo a detestarle. Ebbene, secondo me i motivi sono principalemnte tre.
Innanzitutto, se è vero che per ogni uomo ci sono sette donne, vorremmo eliminare le altre sei che percepiamo come "pericolose" (numero che raddoppia e triplica se abbiamo più di un prentendente).
In secondo luogo ci troviamo ad odiare donne che riconosciamo in parte simili a noi e per questo inutili sulla faccia della terra in quanto "brutte copie" dell'originale.
Ma il terzo e più importante motivo è che, vedendole simili nel modo di vestire e nello stile, sono possibili rivali in tempi di saldi. Avete presente no? Quando date la caccia a una borsetta per una stagione intera e poi, il giorno che iniziano i saldi, andate al negozio e la commessa vi dice "mi spiace, l'abbiamo appena venduta a una ragazza!".
Voi, care amiche, cosa fareste a quella ragazza? Sì lo so, quello che state pensando prevede l'uso di coltelli e un gran spargimento di sangue. Ma siccome così si va in galera, ecco che ci limitiamo a guardare con odio le donne che ci ruberanno non solo il possibile marito, ma anche (sacrilegio!) la borsetta di Gucci in super sconto al 40%.

mercoledì 23 novembre 2011

La speranza si vede anche al buio

Siamo già quasi alla fine di Novembre, il sole tramonta ogni giorno sempre un po' prima e molti rimpiangono quelle belle lunghe, calde e luminose giornate estive, dichiarandosi "allergici al buio".
Sicuramente molti di voi conosceranno l'austriaco Hermann Bahr, storico, autore di teatro e critico d'arte vissuto alla fine del 1800. Si occupò soprattutto dell'impressionismo e dell'espressionismo, ed utilizzò un'immagine che mi ha sempre colpito molto per descrivere il modo in cui l'uomo ha attraversato i secoli e ha reagito agli stimoli esercitati su di lui dalla natura esterna: se, in un certo momento, l'uomo provava paura per ciò che vedeva intorno a sé, egli cominciava a guardare il mondo con un occhio interno, che Bahr definisce "occhio dello spirito"; al contrario, nel momento in cui l'uomo ritrovava una nuova fiducia verso la natura che lo circondava, guardarva allora il mondo con un occhio esterno, definito dal critico austriaco "occhio del corpo". E così si potrebbe tracciare una specie di profilo di storia dell'arte, caratterizzandone le epoche successive in base a quello che, dei due occhi, veniva via via adoperato: se le arti primitive si affidavano all'occhio dello spirito, quella greca si affidava all'occhio del corpo e così via...
Ebbene, voglio rubare a Bahr questa bellissima definizione. In un certo senso è come se durante le ore di luce usassimo l'occhio del corpo e fossimo più aperti agli altri, più fiduciosi verso il mondo e la natura che ci circonda. Nelle ore di buio, invece, è l'occhio dello spirito che cominicia a guardare e ci ritroviamo spesso ad esplorare ciò che di giorno non riusciamo a percepire perché coperto dalla luce e dal chiasso. È il momento del silenzio e dell'introspezione. Forse per questo motivo a molti non piace... per guardare dentro se stessi ci vuole spesso più coraggio che per affrontare il mondo esterno. A me il buio piace, non solo perché amo usare gli occhi dello spirito (qualcuno mi direbbe che lo faccio anche troppo, dando spesso vita ad ansie e brutti pensieri), ma anche perché non percepisco il buio come una mancanza di luce, ma solo la sua attesa. E l'attesa, si sa, è sempre piena di speranza.

martedì 22 novembre 2011

La Commedia non è roba per comici

Parlavo qualche giorno fa dell'ingiustizia che ha colpito il termine "popolare" facendolo diventare sinonimo di "banale", e rivendicavo il diritto ad essere "popolari" ma niente affatto scontati e superficiali. Tuttavia Dragonfly mi suggeriva che esiste anche il fenomeno opposto: ovvero quando le masse si esaltano e si tende a perdere l'identità individuale; e, con essa, anche la capacità di avere un'opinione critica.
So che adesso risulterò parecchio impopolare, ma credo che un chiaro esempio del fenomeno sopra citato sia l'esaltazione di massa, che rasenta l'estasi, ogni volta che Roberto Benigni appare in tv, o sulle piazze, a recitare passi della Commedia dantesca. Senza nulla togliere a Benigni, la cui bravura è indiscussa, credo però che ognuno debba rispettare il proprio ruolo. E lui è principalmente un attore comico, non un professore di letteratura, tantomeno un critico letterario. È insopportabile vedere quanto venga esaltato, non solo dal pubblico, ma anche da buona parte della stampa, quasi come se per il solo fatto di essere conterraneo di Dante, fosse capace di comprenderlo più di chiunque altro. La verità è che la Divina Commedia ha tanti livelli di lettura, troppe possibili interpretazioni, moltissime domande ancora senza risposta perché possa essere banalizzata in quel modo. La superficialità con cui l'attore toscano presenta al suo pubblico l'opera di Dante è, a mio avviso, uno sbeffeggiamento di tutti coloro che hanno passato anni sulle "sudate carte", che hanno scritto saggi, partecipato a convegni, letto e riletto manoscritti e fatto opera filologica per restituirci una Commedia che fosse il più vicina possibile all'originale (come tutti saprete, non esiste nessun documento autografo di Dante).
L'opera dantesca non può essere capita da tutti, non perché serva un'intelligenza sopraffina per comprenderla, ma semplicemente perchè necessita di studi un po' più approfonditi, esattamente come qualsiasi altra materia o disciplina. Inutile decontestualizzarla per essere esaltati da persone che, fino a quel momento, sapevano a malapena che Dante è davvero esistito e il giorno dopo parlano come novelli Sapegno.
La mia è solo l'opinione di un qualsiasi studente di Lettere che si sia trovato ad affrontare la Commedia in maniera più approfondita rispetto ad un liceale. Non sono certo un'esperta; tuttavia sono convinta che banalizzarla non faccia bene a nessuno, perché conoscerla superficialmente è molto peggio che non conoscerla affatto.

lunedì 21 novembre 2011

Ad essere giovani s'impara da vecchi

Vi sarà capitato di ascoltare una canzone, assaggiare un biscotto, sentire un profumo e subito ricollegare queste sensazioni a un ricordo sepolto nella vostra memoria, ma che in quel momento torna vivido e brillante come se il tempo non fosse passato. Proust le ha chiamate "Intermittenze del cuore", e mai definizione fu più precisa.
Io ne ho avuta una bella grossa proprio stamattina, mentre varcavo la soglia del mio vecchio liceo. Tredici anni dopo, c'è ancora lo stesso nauseabondo odore di fumo che proviene dai bagni, ci sono ancora le ragazzine che aspettano i fidanzatini al cancello della scuola durante la ricreazione e quelle che rimangono sedute al banco a ripassare la lezione; c'è ancora Claudio, il tecnico di laboratorio che avevo lasciato biondo e prestante e ho ritrovato imbiancato e appesantito, ma sempre con l'immancabile gomma in bocca. È come se il tempo fosse trascorso, lo si vedeva da alcuni dettagli (un muro che prima non c'era, un ascensore nuovo, la pavimentazione del giardino appena rifatta), ma al contempo si fosse fermato.
Ho rivissuto in pochi minuti 5 anni di angosce e litigi, di speranze e sogni ad occhi aperti; mi sono rivista ragazzina, perennemente insoddisfatta come solo gli adolescenti sanno essere. Ho sorriso amaramente pensando che, allora, mi sembrava una tragedia litigare con una compagna particolarmente antipatica o prendere un brutto voto in pagella. Non sapevo che il dolore, quello vero, sarebbe arrivato dopo e che, tornando 13 anni dopo in quella scuola, mi sarei sentita ancor più smarrita di quando ne sono uscita.
La distanza incolmabile che c'era tra me e gli studenti che mi stavano intorno era evidente: avrei potuto essere una loro zia o una sorella molto maggiore. Loro non mi vedevano. Non ero parte del loro mondo, ero classificata come elemento estraneo e privo di ogni tipo di attenzione.
In un certo senso, è come se stamattina avessi definitivamente preso coscienza di non essere più quella ragazzina infelice e speranzosa. E la sensazione che ho adesso è quella di essere diventata "vecchia" senza aver mai conosciuto l'età in cui una persona si sente finalmente realizzata, quella in cui le speranze si trasformano in qualche modo in realtà.
Sono diventata vecchia senza mai essere stata adulta.

domenica 20 novembre 2011

Vitime dello shopping: la solitudine degli uomini primitivi

Scrivo dopo aver guardato per l'ennesima volta "Pretty Woman". Mi sono concessa un paio d'ore di assoluto relax, mentre cucinavo il pranzetto della domenica. Come al solito, la scene che mi emozionano di più sono quelle dello shopping sfrenato (lo so, lo so, pensavate quelle d'amore, ma l'amore passa, le borse e le scarpe firmate restano!). Ogni volta mi ritrovo a sognare ad occhi aperti su come sarebbe bello uscire con un uomo che ti porta in un negozio, ti dice di scegliere tutto quel che vuoi e che se ne sta lì in disparte a darti timidi consigli, sapendo che sta per spendere una cifra "spudorata".
Purtroppo la dura realtà con la quale noi povere "shopaholiche" ci scontriamo ogni giorno è decisamente diversa.
Anche quelle più fortunate di noi, ovvero quelle che dispongono di un discreto conto in banca e della "carta magica" con possibilità di spese illimitate, sanno bene che, in ogni caso, andare a fare spese con un uomo è un'esperienza deludente.
Gli uomini che accompagnano le fidanzate/ mogli/ amiche a far shopping si dividono fondamentalmente in due categorie: Quelli che aspettano e Quelli che partecipano.
Quelli che aspettano sono i più angoscianti: li vedi là, immobili come pali della luce, che aspettano fuori dal camerino (o a volte anche fuori dal negozio), usati per lo più come attaccapanni dalle loro compagne, che li lasciano ad aspettare con borse, cappotti, sacchetti degli altri negozi. Hanno lo sguardo triste dei cani abbandonati sull'autostrada, quegli uomini lì, e gli occhi che implorano "salvatemi!"; guardano gli altri uomini, quelli che passano sprovvisti di una compagnia femminile, con un'espressione mista tra "non sai quanto sei fortunato" e "spero che a breve tocchi anche e te questa tortura". Sono uomini soli, che a volte fanno comunella con altri poveri malcapitati come loro, con i quali si ritrovano a parlare come se fossero amici di vecchia data, dimostrando quanto sia veritiero il vecchio detto "mal comune mezzo gaudio".
Quelli che partecipano si dividono a loro volta in due sottocategorie: gli Inutili e i Molesti.
Gli Inutili sono coloro che seguono la loro compagna come un'ombra e quando lei chiede "come mi sta?" rispondono sempre "bene, tesoro!". Una può avere due cosce come un calciatore e mettersi una minigonna inguinale e loro rispondono comunque "come stai bene, tesoro!". Sono uomini che in quel momento viaggiano in modalità pilota automatico, hanno risposte preimpostate e l'unico neurone che è ancora attivo nel loro cervello risponde solo a stimoli primitivi come : mangiare, fare la pipì ecc... Sono anche loro uomini soli, che reagiscono all'ingiustizia di essere costretti a rimanere là dove non vorrebbero rifugiandosi nel loro mondo fatto di coniglietti morbidini (e qui cito un amico che sarà felice di essere ricordato).
I Molesti sono esattemente l'opposto. Hai voluto che venissi con te? Hai voluto trascinarmi per ore a cercare di capire se una gonna blu prussia è meglio di una gonna blu oltremare? Ebbene, te ne pentirai! Ed ecco che questi uomini mettono bocca su ogni cosa: quel colore ti invecchia, quel modello ti sta male, quelle scarpe sono ridicole, fai come ti pare ma con me in giro vestita così non ci vieni... e così via. Sono coloro che combattono, sono quelli che si ribellano, i vendicativi, i peggiori.
La realtà è che le vere vittime dello shopping sono proprio gli uomini, costretti contro la loro volontà a seguire le donne in un momento che invece dovrebbe essere solo femminile. Perché anche loro, le donne, mica si divertono alla fine a passare il pomeriggio con musi lunghi, brontolii e sospiri continui. Lo shopping è un momento sacro, come andare dal parrucchiere o dalla manicure. È un momento da dividere con le amiche, con le mamme, con le sorelle. Lasciate gli uomini liberi di andare in moto, di giocare a calcetto, di andare a bere la birra con gli amici e godetevi il momento in cui entrate in un negozio e sentite quel profumo tipico della roba nuova, che aspetta solo voi e la carta di credito di coloro che in quel momento sono felici di pensare "mi sono salvato stavolta!".

sabato 19 novembre 2011

La banalità è negli occhi di chi guarda

È un po' di tempo che ci penso: ma da quando il termine "popolare" è diventato sinonimo di "banale" e "scontato"? Da quando una cosa, se diventa popolare, ovvero comincia a piacere al grande pubblico, deve essere messa al bando, etichettata come "stupida" e quindi evitata come la peste dai cosiddetti "critici"?
Per fare un esempio: quando uscì il film "Titanic" (era il 1998), decisi di andarlo a vedere senza avere la benchè minima idea di come fosse realizzato (certo, conoscevo la storia, ma non la trama). Andai a vederlo solo perché veniva presentato dalla critica come "il film più costoso della storia del cinema" e per vedere i famosi super effetti speciali. Uscii singhiozzando. E questa non è poi una novità, dato che ho "la lacrima in tasca" come mi diceva sempre la mia maestra elementare. Tuttavia quel film ebbe un effetto devastante sul mio povero cuoricino diciottenne. E lo stesso effetto lo ebbe su altre milioni di persone (per lo più di sesso femminile, va detto) nel mondo. Ed ecco che ci fu il cambiamento: quello che fino ad allora veniva presentato come un Colossal (secondo la definizione del Sabatini Coletti "film realizzato con grande impiego di mezzi e persone, monumentali messe in scena, effetti speciali e un cast di attori di rilievo"), divenne poco a poco considerato un film da donnette piagnucolanti, insipido e ridicolo. Questo solo perché, invece di rimanere "di nicchia" e quindi apprezzato dalla gente colta che ha studiato e che sa riconoscere l'Arte, cominciò ad essere osannato dalle casalinghe, dalle ragazzine e da chi non aveva mai letto nemmeno un libro.
Non è mia intenzione star qui a discutere se "Titanic" sia o meno un bel film, perché quello è questione di gusti personali (io non ho ancora superato il lutto per la morte del povero Jack, ma questo è un fatto del tutto soggettivo e quindi irrilevante). Voglio solo porre l'attenzione sul fatto che, quando una cosa è oggettivamente fatta con cura, quando suscita emozioni, quando lascia un segno in chi la guarda o l'ascolta, poco importa se ad apprezzarla sono in due o in due milioni di persone. Dissacrare una cosa per partito preso, solo perché piace a tutti, è un male che andrebbe estirpato da questo mondo.
Io rivendico il diritto di trovare geniale una canzone della Pausini, di considerare i Pooh il miglior gruppo italiano di tutti i tempi, di ascoltare Baglioni in macchina a tutto volume senza dover essere guardata come un sfigata, di leggere Harry Potter sul treno senza dover nascondere la copertina, di entrare in libreria e comprare tutta la serie di "I love shopping" senza che la cassiera mi guardi con l'aria di chi pensa "...e scommetto che stasera guarderai perfino il Grande Fratello!".
Rivendico il diritto di avere le stesse identiche preferenze di altri milioni di persone e di non sentirmi affatto banale per questo!

venerdì 18 novembre 2011

Ma quanto è sexy l'astinenza!

Ebbene sì. Chi vi scrive è una seguace della saga di Twilight, o, se vogliamo andar dietro all'abitudine di dare un nome a ogni cosa, una "twilighter". Di quelle che non si strappano i capelli, che mai si accamperebbero per tre notti al freddo e al gelo davanti ad un hotel per vedere un attore biondo che fa capolino da una finestra, di quelle che non stanno ore a discutere se è meglio essere "team Ed" o "team Jake", ma semplicemente una di quelle che hanno letto i libri e che, lo dico senza alcuna vergogna, li hanno adorati fin dalla prima pagina. Eppure...
Eppure sono d'accordo con ogni obiezione che viene fatta a questi libri: la storia è banale, trita e ritrita, i riferimenti ad altre storie famose (la Bella e la Bestia, Romeo e Giulietta, Cime Tempestose...) si sprecano e, anzi, sono addirittura  dichiarati esplicitamente dalla stessa autrice; lo stile e il linguaggio non distano poi molto da i famosi "romanzi Harmony" e la trama a tratti scade nel ridicolo.
Tuttavia mi ricordo bene le parole della mia insegnate di Editing durante il corso di Editoria, quando ancora ero una felice studentella universitaria piena di speranze: "Un libro, per essere pubblicato, non deve necessariamente essere originale, perché ormai è stato già scritto tutto. Non esistono più storie originali. Per decidere di pubblicare un libro si deve essere in grado di prevedere l'impatto che avrà sul pubblico e se venderà o meno. Bisogna essere dunque in grado di trovare, se ci sono, i suoi punti di forza".
Ebbene, "Twilight" ha senza dubbio dei punti di forza che fanno passare in secondo piano i difetti di cui parlavo prima. Quando leggiamo un libro o guardiamo un film, abbiamo delle aspettative sulla trama: speriamo, cioè, di leggere/vedere quello che vorremmo che accadesse. Ecco, leggendo "Twilight", fin dalla prima pagina la lettrice spera che Edward e Bella si amino e che vivano per sempre insieme, ma essendo lui un vampiro e lei umana, l'unica soluzione è che lei diventi vampira. E infatti questo accade. Senza quasi nessun intoppo, senza che questa certezza venga mai messa in discussione. Questo è il primo punto di forza: dai al lettore quello che si aspetta.
Il secondo punto di forza, e forse quello più importante, è che i due protagonisti praticano l'astinenza sessuale: dopo averci presentato lui come "forte e indistruttibile" e lei "fragile e delicata", dopo averci descritto la loro attrazione che coinvolge tutti e cinque i sensi, dal tatto al gusto, perché lui se la mangerebbe (letteralmente), dopo averci ripetuto in tutti i modi possibili che per lei fare l'amore con lui sarebbe pericoloso perché lui è troppo forte e potrebbe ucciderla, per vederli finalmente "consumare" bisogna aspettare tre libri e altrettanti film.
Questo, ve lo posso assicurare, è una mossa vincente. Dopo anni e anni in cui le storie romantiche erano basate sullo schema "si incontrano, fanno sesso, POI si innamorano", imbattersi in una storia che stravolge questo schema è stato devastante per il pubblico femminile. Tutte noi abbiamo sentito le famose "farfalline nello stomaco" allorché, alla fine del terzo libro, sembra che finalmente fra i due succeda qualcosa, ed Edward pronuncia la famosa frase: "Ti amo. Ti voglio. Adesso". Ma no. Non è ancora il momento. E la tensione sessuale tra i due sale e, insieme a quella, la smania della lettrice che si immedesima (eh, inutile negarlo...).
Metto poi come ultimo punto di forza il fatto, qui sì un po' originale, che il ritroso è lui. Lei vorrebbe far sesso fin dal primo bacetto. Lui non si concede se non dopo il matrimonio. D'altronde, è un uomo dell'800, conosce perfettamente la differenza tra "ragazza da sposare" e "ragazza che la dà" e lui Bella la vuole sposare. E quindi no, niente sesso, anche se lei non fa altro che provocarlo in tutti i modi possibili, con quella sua aria innocente da ragazzina fragile e perbene.
Insomma, c'è poco da fare i supercritici. "Twlight" non è certo un capolavoro, non rimarrà nella storia della letteratura e non verrà studiato nelle scuole. E sinceramente non credo nemmeno che questo fosse l'intento dell'autrice. Lei voleva scrivere un libro che vendesse milioni di copie e c'è riuscita. Le chiacchiere stanno a zero. Ha scoperto l'uovo di Colombo? Forse. Ha usato una formuletta di sicuro successo, studiandosela a tavolino? Può essere. Ma intanto si gode i suoi milioni di dollari e se la ride alla faccia di tutti i professoroni snob con la "evve moscia" che storcono il naso di fronte alle ragazzine in estasi.
Eddai, professoroni, divertitevi un po' anche voi ogni tanto! C'è un tempo per studiare e uno per divertirsi... Su, confessatelo: veramente "I Promessi Sposi" vi ha divertito come "Il Codice da Vinci"???

giovedì 17 novembre 2011

Le parole che non sappiamo dire

La verità è che non ci sarà mai nessuno che possa trovare le parole adatte per consolarti, quando ti succede una cosa brutta.
Sarà per questo motivo che, quando mi trovo a dover fare le condoglianze a un amico per la perdita di una persona cara, mi vergogno. Perché mi domando che senso abbia telefonare a qualcuno e dirgli "mi dispiace". È ovvio che mi dispiaccia, altrimenti non avrei telefonato. "Ti faccio tante condoglianze", che è più o meno come fare gli auguri a Natale: un rito, una formuletta inventata dai benpensanti, che nascondono spesso la loro indifferenza dietro la maschera della buona educazione.
Non ci sono parole che esprimino la sincera condivisione del dolore. O almeno, io non so trovarle; ho sempre paura di apparire patetica, esagerata, finta. Eppure, se ci pensate, è molto più sincero dire "mi dispiace" che non "sono così contenta per te!". Mi piacerebbe sapere quante damigelle d'onore single sono davvero felici per la loro amica che si sta sposando. D'altra parte, è anche molto più facile dispiacersi per una cosa brutta che capita ad un'altra persona, che gioire di una cosa bella che non ci riguarda. Questo perché siamo fondamentalmente egoisti e pessimisti: immedesimandoci nel malcapitato, gli confessiamo scaramanticamente la nostra compartecipazione al suo dolore nella segreta speranza di non ritrovarci al suo posto, un giorno.
"Ti voglio bene, ti starò vicino qualunque cosa accada, non ti abbandonerò" , ecco quello che si vuol sentir dire qualcuno che vuol essere consolato. Non sforzatevi a trovare parole di incoraggiamento, non cercate di "vedere il lato positivo", non provate nemmeno a dire che "prima o poi passerà". No. Dichiarate solo quel che provate, se è sincero, e accettate il fatto che la persona che state cercando di consolare non smetterà di piangere in quel momento, ma almeno saprà di non essere sola. E questo, visti i tempi che corrono, è come vincere la lotteria di Capodanno.

mercoledì 16 novembre 2011

In cerca dell'uoVo Perfetto

Joyce le chiama "Epifanie": quando un oggetto, un fatto, una persona che ci sta accanto si rivela improvvisamente per quello che davvero è, e di colpo noi capiamo ciò che fino ad allora era proprio lì sotto al nostro naso senza che riuscissimo a vederlo. Senza nulla togliere al caro James, io le chiamo "Gran Tranvate". Perché, di solito, ciò che improvvisamente vediamo in modo così chiaro e limpido non ci piace affatto. Esattamente come quando da bambini apriamo l'uovo di Pasqua. Già. È proprio da bambini che impariamo a sopravvivere alle delusioni. I tuoi genitori ti comprano quell'immenso ovone avvolto in una carta luccicante, e ti dicono "no, non devi aprirlo, devi aspettare! Chissà cosa ci sarà dentro!". E tu non fai altro che aspettare, immaginandoti che da quell'uovo escano giocattoli mai visti, fuochi d'artificio e chissà che altro. Poi arriva il giorno che finalmente puoi aprirlo, ti alzi alla mattina e non vedi l'ora, riponi in quel pezzo di cioccolata scadente tutte le tue speranze. E poi arriva la delusione, perché quello che trovi lì dentro è tutto ciò che non avresti mai immaginato e mai voluto. Mi ricordo di una volta che, di fronte alla mia faccia sconsolata per aver trovato dentro l'uovo di Pasqua un accendino, mia madre mi disse "Ma il regalo era l'uovo stesso, Michela!". Oltre al danno la beffa.
Molte persone sono come uova di Pasqua. Solo che, quando sei "grande", è molto più difficile consolarsi di fronte alla sorpresa della loro epifanizzazione. Per mia fortuna, sono allenata: non ho mai smesso di aprire uova di Pasqua. Dopo 32 anni e altrettante delusioni, continuo imperterrita a sperare di aprire, un giorno, l'Uovo Perfetto, e di non ritrovarmi con le lacrime agli occhi per aver riposto tutte le mie speranze in quella che poi si rivela solo una bella confezione colorata.

martedì 15 novembre 2011

La sicurezza del cappuccino

Seduta in quel caffè...
Stamattina stavo sorseggiando il mio solito cappuccino al solito baretto "sotto casa", e osservavo gli altri clienti, sempre i soliti, che incontro sempre alla stessa ora ogni mattina. Tutti, e dico tutti, me compresa, non osano mai ordinare qualcosa di diverso e fanno, ogni mattina, le stesse cose: c'è quello che entra e subito ordina il caffè e poi aspetta impaziente di poter leggere il giornale che nel frattempo è in mano alla signora con le buste della spesa, sempre le stesse due buste che contengono sempre almeno due pacchi di pasta e un cartoccio della gastronomia; c'è l'autista dello scuolabus che ogni mattina fa una telefonata con l'auricolare e ordina una sfoglia al riso e un latte macchiato; c'è la ragazza bionda col bambino che entra e informa la titolare del bar se e come il pargolo ha dormito quella notte, ci sono le "tre grazie" che spettegolano sempre di una certa Grazia (la quarta grazia??), che, vi giuro, se un giorno la incontro le chiedo subito perché pensa che suo figlio sia meglio di quello delle altre tre... e così via, ogni mattina. Passano le stagioni, ma nessuno cambia mai abitudine. Ed ecco che mi viene da pensare che l'abitudine sia un po' come la nostra coperta di Linus, l'ancora di salvezza; puoi passare la notte peggiore della tua vita, ma hai una certezza: la mattina dopo andrai al bar a prendere lo stesso cappuccino che ti rassicuri, che ti dica che in fondo non è successo nulla di così catastrofico, perché altrimenti non saresti lì a fare la stessa colazione che hai fatto negli ultimi cinque o dieci anni. L'abitudine che grande invenzione umana! Il nostro più grande limite e insieme la nostra ancora di salvezza.
Sì, ho pensato a tutto questo bevendo un cappuccino e, pensate, ho avuto pure l'idea di scriverlo con la presunzione che a qualcuno possa fregare qualcosa...
ma è a questo che servono i blog, no?

lunedì 14 novembre 2011

Il mio primo post

Non ho nessuna idea di come si gestisca un blog, non so nemmeno se per iniziare si debbano salutare gli eventuali lettori... però in effetti la buona educazione impartitami fin dalla tenera età mi impone il saluto e quindi...
Ciao a tutti! Immagino che la prima domanda che uno qualsiasi di voi si ponga leggendo questo blog (che poi già scrivo come se avessi orde e orde di lettori, mentre per adesso sono l'unica che legge) sia sul significato del titolo. Ok, ammetto subito che non è farina del mio sacco, ma una citazione da una poesia di Louis Aragon, poeta surrealista francese.
"Fuochi artificiali per scottarsi le dita" sarà un blog dedicato alla poesia e ai miei stati d'animo, alle mie opinioni e ai miei sbalzi d'umore (che avverto già saranno numerosi e imprevedibili), alla malattia che convive con me (il diabete) e all'attualità, al cinema e alla musica... insomma, il classico blog come ce ne sono a milioni. Ma ciò che mi viene detto spesso è "dovresti tenere un blog!" e io, adesso, ci provo. Vediamo che ne viene fuori.