lunedì 27 febbraio 2012

Archiviare, non dimenticare

Si chiama "Sindrome di Susac", ne sono vittime soprattutto le donne tra i 20 e i 40 anni, ed è molto particolare: colpisce la memoria. Dal momento in cui ti ammali, ti rimane solo la memoria breve, meglio dire brevissima: ti ricordi solo le ultime 24 ore della tua vita.
Non è un romanzo, è una storia vera: l'ultima ad esserne stata colpita è una ragazza inglese di 19 anni.
In certi momenti la invidio. Vi immaginate che vuol dire non ricordarsi nulla delle cose tremende che vi sono successe fino a ieri? E se per caso oggi vi succede una cosa brutta, sapete già che dopodomani l'avrete dimenticata!
Poi però penso che è proprio grazie ai ricordi delle cose terribili che ci sono capitate che ci fortifichiamo per fare in modo che il futuro non ci trovi sempre così vulnerabili. Dimenticare fa sì che ogni volta sia come la prima, il che è devastante.
Bè, certo, 24 ore sono poche per potersi affezionare a qualcuno al punto da soffrire per la sua mancanza, quindi saremmo tutti al riparo dalle delusioni d'amore. Ma saremmo anche terribilmente soli. Anche se circondati da persone che ci vogliono bene, ci sentiremmo soli perchè non avremmo persone a cui voler bene, non potendoci affezionare davvero a nessuno in un solo giorno.
Potremmo letteralmente vivere alla giornata, ma senza mai fare nessun tipo di progetto che vada oltre domani. Non saremmo liberi, ma inconsapevoli prigionieri. Senza contare che insieme ai ricordi brutti perderemmo anche tutti quelli bellissimi che, spesso, riescono a colorare le giornate in bianco e nero.
La verità è che per smettere di soffrire non si deve dimenticare. Si deve accettare, archiviare, perdonare e capire. Accettare le conseguenze delle proprie scelte, archiviare intere parti della nostra vita senza dimenticarle mai, perdonare gli altri se ci hanno fatto del male e anche noi stessi per averglielo permesso. Infine capire: capire cos'è che ci ha fatto stare così male, capire che forse, nel difenderci da qualcosa, abbiamo reagito facendo a nostra volta del male a qualcuno, capire cosa ci spinge a ripetere all'infinito certi errori. E, alla fine, capire anche che certe cose non si meritano di essere ricordate per più di 24 ore.

venerdì 24 febbraio 2012

Oggi si va sul classico: Manzoni

Torniamo un po' alla mia amata letteratura, quella snobbina e impegnata, tanto per non perdere l'abitudine. Oggi voglio condividere con voi una delle più belle pagine che, a mio avviso, siano state scritte nella storia della letteratura, tratta nientepopodimenoché da "I promessi sposi". Voi direte: "grazie al piffero, è Manzoni!". Bè, certo, il sig. Alessandro sapeva scrivere benino, si sa. Ma all'interno dei capolavori che ha scritto nell'arco di tutta la sua vita, quella che oggi voglio riportare qui è il capolavoro dei capolavori. Qualcosa di sublime. Una paginetta che ho letto per la prima volta in un'antologia alle elementari, e che probabilmente ha segnato in maniera indelebile il mio destino, avvicinandomi definitivamente alla letteratura (e allontanandomi dalla matematica). Non ho mai più letto nulla che mi scatenasse emozioni simili come quando ho letto questo passo, e tutt'ora ogni volta che lo leggo mi salgono le lacrime agli occhi e mi lascio trasportare dalla musicalità del brano (provate a leggerlo ad alta voce: vi accorgerete che ci vuole una giusta intonazione e che potrete "ascoltare" le costruzioni sintattiche e la scelta dei vocaboli così come si ascolta un brano musicale).
Il brano è conosciuto come "La morte di Cecilia": siamo a Milano, decimata dalla peste; Renzo sta attraversando la città piena di gente affamata, disperata e impaurita, piena di morti e di carri guidati dai monatti che li portano via con indifferenza e insensibilità. E d'un tratto si apre davanti agli occhi di Renzo questa scena "di singolare pietà, una pietà che invogliava l'animo a contemplarla": una mamma, malata anche lei, sta portando verso il carro di un monatto la sua bambina, Cecilia, di circa nove anni, morta. L'ha vestita a festa e pettinata con cura e la sta portando in braccio come se fosse ancora viva, con una dolore dignitoso che commuove perfino il monatto. La mamma posa sul carro Cecilia e le parla con dolcezza, salutandola, e torna in casa, affacciandosi alla finestra con un'altra bambina in braccio (ancora viva ma "coi segni della morte in volto") con la consapevolezza che di lì a poco tutte quante si ricongiungeranno nella morte.
Scontati i brividi per quell'ultima metafora, quella proprio alla fine del brano, che rileggerei mille e mille volte ancora.
Voi non li sentite?

"Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono piú forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.” Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.”
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, piú per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi,” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.”
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina piú piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato."

Alessandro Manzoni, "I promessi sposi"

giovedì 23 febbraio 2012

Barzellette viventi

"...è questo che veramente vuoi? Donne che si comportino come schiave, donne con l'ossessione di tenere la cucina pulita e di farsi i capelli, donne che non ti mettano mai in discussione in alcun modo, donne che esistano soltanto per aspettarti a casa carponi?"
tratto dal film "La donna perfetta"' (2004)

Avete mai visto questo film? Bè, se non lo avete mai fatto, guardatelo. Tratto dal romanzo di Ira Levin "La fabbrica delle mogli" (1972), è la storia di Joanna, una donna in carriera che abita a New York, stressata e con un matrimonio in crisi, che di colpo viene licenziata dalla tv per la quale lavora. Un giorno il marito Walter le comunica che anche lui si è licenziato e le propone di trasferirsi in una cittadina del Connecticut, Stepford, per cercare di allontanarsi dalla vita frenetica della metropoli e tentare di salvare il loro matrimonio. Joanna accetta e di colpo si trova immersa in un'atmosfera anni '50 in cui tutte le donne del posto sono bellissime e devote ai loro mariti, passano il tempo cucinando e ricamando, dicono sempre di sì, sono sempre sorridenti e gentili, perfettamente truccate, con i capelli sempre in ordine e "fanno sesso alla grande".
Gli uomini dal canto loro passano il tempo libero in un circolo, il cui ingresso è vietato alle mogli, fumando sigari e compiacendosi a vicenda delle loro perfette compagne.
Non voglio star qui a raccontare tutta la trama, quello che mi preme sottolineare è che questo film dovrebbe essere un'iperbole: una commedia che gioca sul luogo comune, esasperandolo, che per un uomo l'ideale di perfezione femminile sia quello di una donna-bambola, possibilmente bella, né intelligente né stupida ma semplicemente non-pensante, brava a letto e in cucina e sempre sorridente. Perché dico "dovrebbe essere"? Perché sempre più mi sto rendendo conto che, per alcuni uomini (dico alcuni per non dire molti, dico molti per non dire tutti), quello sarebbe DAVVERO l'ideale di donna. Scoprire che esistono uomini che fanno parte di un cliché trito e ritrito è una cosa di una tristezza allucinante. È un po' come se vedessimo avverarsi sotto i nostri occhi una delle tante barzellette sui carabinieri, o se avessimo "la famiglia del Mulino Bianco" come vicini di casa. Perfino mentre lo sto scrivendo mi rattristo da sola, perché sono costretta ad entrare anch'io nel cliché delle donne che si lamentano perché gli uomini sono tutti stronzi e le trattano come delle bamboline. Ma tant'è.
Avevo questa strana, buffa, bislacca idea che avessimo raggiunto una parità. Ma non parlo di ruoli: tanto per non passare come la femminista dell'ultim'ora (e poi il femminismo non è manco più di moda) vi dico che io sono per il rispetto dei ruoli. La donna si occupi della famiglia, dei figli, della casa. L'uomo di tutto il resto. Va benissimo, è giusto così. Trovo "innaturale" che la donna faccia carriera e l'uomo stia a casa a lavare i piatti (ma se ci sono coppie che sono felici così, buon per loro). Io parlo di una parità "intellettiva": avevo creduto che, almeno a livello mentale, non dividessimo più il mondo tra "uomini e donne", ma tra "persone e persone". Persone buone, persone meno buone, persone intelligenti, persone stupide, ma senza distinzione di sesso.
Invece mi sono trovata più volte a sentire discorsi del tipo "è una donna, per forza ragiona così!" "oh mamma mia, le donne che fanno le menate basta non ascoltarle!" "la donna deve stare zitta, cucinare e darla via, ecco cosa deve fare". Queste tre frasi hanno un denominatore comune: le donne, per essere perfette, non devono parlare, meglio ancora, non devono pensare; il pensare è prerogativa maschile, in quanto l'uomo vive alla giornata, senza fare menate e senza farsi troppe domande.
La sorpresa nel finale del film sopracitato sarà scoprire che gli uomini sono così per "colpa" delle donne. Donne che si autoconvincono che sia giusto così e creano dei piccoli mostri, in una metafora fin troppo chiara: le mamme educate ad essere bambole non-pensanti insegneranno ai loro figlioletti maschi a volere come compagne delle bambole non-pensanti, entrando di diritto anch'esse nel cliché della mamma chioccia che vizia il figlio e lo giustifica qualsiasi cosa faccia perché in fondo "è sempre tutta colpa delle donne che pensano, ecco cos'è! Se non ci fossero queste donne il mondo sarebbe un posto migliore!".
Lasciatemelo ripetere: che tristezza immensa.

mercoledì 22 febbraio 2012

È tutta colpa di Baglioni

Ieri sera, d'improvviso, l'illuminazione! Anni e anni a chiedermi per quale motivo io sia quella che ancora piange davanti a "Ghost", che si scioglie con una poesia, specie se d'amore, quella che sta aspettando con ansia l'uscita di "Titanic" in 3D, quella che sa a memoria le battute di "Dirty Dancing", che nonostante tutto e sottosotto ancora guarda "Cenerentola" con un pizzico d'invidia, e ora ho finalmente la risposta: è colpa di Claudio Baglioni.
Da bambina, fino ai 10 anni circa, mio padre, ogni sabato mattina (frequentavo una scuola a tempo pieno, per cui il sabato mattina ero sempre a casa), mi portava con sé alla S.MI.PAR (Scuola Militare di Paracadutismo). Poi lui andava a lavorare nel suo ufficio e mi lasciva a girottolare per la caserma. C'era un giardinetto con delle altalene, e ci passavo ore intere; ogni tanto facevo amicizia con uno dei tanti micetti che abitavano lì dentro; ogni tanto mi intrufolavo in qualche ufficio vuoto a curiosare tra le scartoffie; ogni tanto mi addormentavo sui divanetti del circolo sottufficiali; ogni tanto giocavo con il biliardino o il flipper. Poi però arrivò il momento in cui, avendo esplorato la caserma in lungo e in largo, mi annoiavo a morte. E allora, per passare il tempo, mi rinchiudevo in macchina ad ascoltare la radio a tutto volume cantando a squarciagola.
Ecco: un bel giorno trovai inserita nel mangianastri la cassetta (a quel tempo non c'erano i cd) con i più grandi successi di Claudio Baglioni. Il destino volle così.  Ed è da lì che la mia povera mente fanciulla, che in quel momento era come un foglio bianco, cominciò ad essere riempita di immagini che hanno irrimediabilmente cambiato il mio modo di vedere la vita e, ahimè, l'amore.
È in quel momento che ho cominciato a credere agli amori totalizzanti, ai baci "a labbra salate, il fuoco e quattro risate"; è da allora che mi piace stare "accoccolati ad ascoltare il mare", che se penso all'uomo ideale lo vedo sempre "con grandi occhi chiari", che so che "ogni incontro è già un addio", che "io me ne andrei" ma solo dopo "un lento, l'ultimo, oramai". È da allora che ho imparato ad avere sempre "quell'aria da bambina", a sapere che non si può chiamare bacio se non ne viene dato "un altro e un altro ancora", che il massimo della vita è stare "mano nella mano" a "gridare i nostri nomi contro il vento"...
Potrei andare avanti all'infinito, ma la diagnosi ormai è chiara: avessi trovato la cassetta di Gianna Nannini ora probabilmente sarei un'avventuriera sempre con lo zaino in spalla, ribelle e stronza. Invece trovai Baglioni.

martedì 21 febbraio 2012

Sono l'eresiarca di tutte le chiese

Sono l'eresiarca di tutte le chiese
Ti antepongo a tutto ciò per cui vale la pena di vivere e morire
Ti porto l'incenso dei luoghi santi e la canzone del foro
Guarda le mie ginocchia che sanguinano per il tanto pregare davanti a te
I miei occhi ciechi per tutto ciò che non è tua fiamma
Sono sordo a ogni pianto che non venga dalla tua bocca
Non capisco i milioni di morti se non quando sei tu che gemi
E' per i tuoi piedi che provo dolore a ogni sasso dei viottolo
Per le tue braccia lacerate da tutti i cespugli di rovo
Tutti i fardelli che si portano straziano le tue spalle
Tutti i dolori del mondo sono racchiusi in una tua lacrima
Non avevo mai sofferto prima di te
Si può forse dire che soffra
La bestia che ferita lancia un grido
Come potete paragonare al male animale
Questa vetrata in mille pezzi dove si compie una crocifissione del giorno
Tu m'hai insegnato l'alfabeto del dolore
Io adesso so leggere i singhiozzi
Sono fatti tutti del tuo nome
Del tuo nome soltanto il tuo nome spezzato il tuo nome di rosa sfogliata
Il tuo nome giardino di ogni Passione
Il tuo nome che andrò a scrivere nel fuoco dell'inferno alla faccia del mondo
Come quelle lettere misteriose sulla croce del Cristo
Il tuo nome grido della mia carne e strazio della mia anima
Il tuo nome per il quale brucerò tutti i libri
Il tuo nome onniscente in fondo all'umano deserto
Il tuo nome che è per me la storia dei secoli
Il cantico dei cantici
Il bicchier d'acqua nella catena dei forzati
E tutti i vocaboli non sono che un campo di cocci di bottiglia alle porte di una città maledetta
Quando il tuo nome canta sulle mie labbra spaccate
Il tuo nome soltanto e mi taglino pure la lingua
Il tuo nome
Tutto musica nell'istante della morte.


Louis Aragon

lunedì 20 febbraio 2012

Perché il papa non è re, il re non è papa e la pera non è rapa

Perché stiamo male anche quando prendiamo decisioni giuste? Perché le parole cattive ci colpiscono di più di quelle buone? Perché mettiamo la nostra vita nelle mani delle persone sbagliate? Perché tutte le volte che "seguiamo il cuore" sbagliamo? Perché se decidiamo di "seguire la ragione" sbagliamo lo stesso? Perché non riusciamo a liberarci del ricordo di persone che ci hanno fatto male? Perché trattiamo male le persone che invece ci vogliono davvero bene? Perché più parliamo e meno siamo capiti? Perché ci aspettiamo sempre troppo dagli altri? Perché riusciamo a sentirci in colpa anche quando abbiamo ragione? Perché ce la prendiamo con le persone sbagliate? Perché siamo così dipendenti dal giudizio degli altri? Perché non incontriamo mai persone che si prendano la responsabilità delle proprie azioni? Perché non impariamo mai a non farci fare del male? Perché predichiamo bene e razzoliamo male? Perché siamo così capaci di risolvere i problemi agli amici e mai i nostri? Perché riusciamo a capire al volo gli altri tranne quando hanno a che fare noi? Perché esiste e a che serve il "senno di poi"?
Perché se tutti hanno i nostri stessi problemi ci sentiamo sempre così soli?

N.B. Il titolo di questo post è la risposta che mio padre mi dava sempre quando, da bambina, cominciavo col gioco dei mille perché che non avevano risposta o la cui risposta era troppo complicata.

sabato 18 febbraio 2012

Voglio far vedere la farfallina anch'io!

Chi di voi non ha visto nemmeno un minuto del festival di Sanremo? Ok, sicuramente qualcuno c'è. Ma, che lo vogliate o no, il Festival della canzone italiana entra lo stesso nelle vostre case: basta accendere la tv, navigare un po' su internet, aprire un giornale e sarete travolti dalle polemiche e dai gossip sul festival. Non c'è niente da fare.
Quest'anno le polemiche si erano concentrate sull'intervento di Adriano Celentano durante la prima serata, finché non è arrivata la farfallina di Belén Rodriguez. Subito tutti si sono dimenticati dei discorsi noiosi e retorici del "molleggiato" (ex molleggiato, sarebbe meglio dire, visto che ha novant'anni per gamba) e si sono buttati a pesce sulla farfalla: ce le aveva o no le mutandine Belén? Lo ha fatto apposta? Corona sarà stato d'accordo? ecc...
Ok, al di là del fatto che quel vestito, per come era concepito, a mio avviso non poteva prevedere nessun tipo di slip ("fa brutto" vedere il laccio delle mutande, eh, anche se sono fili interdentali sottilissimi), bisogna dire che, alla fine, non è stata nemmeno così volgare, perché tutti hanno guardato la farfallina tatuata lì vicino.
Da donna (invidiosa) devo ammettere che la Belén non sbaglia un colpo: è bella, è brava, sa cantare e ballare, è anche simpatica... e riesce perfino a far vedere la farfallina senza risultare volgare!
Al che mi sono messa a pensare all'enorme, devastante, differenza che c'è fra me e lei e ho contato le milioni di cose che non abbiamo in comune. Però, c'è un però! Perché se molte donne possono dire di avere in comune con lei solo il genere femminile, io,fino a mercoledì mattina, già ne avevo due: ho anch'io un tatuaggetto a forma di farfalla! Perché dico "fino a mercoledì"? Perché mercoledì mattina, di colpo, le cose in comune con lei son diventate tre.
Andando a comprare la mia adorata rivista preferita, Vanity Fair, ho scoperto che in copertina faceva bella mostra di sé proprio la Belén. Un bellissimo servizio fotografico con una mela in mano. E subito mi è venuto in mente che, qualche mese fa, per gioco, ho fatto anch'io una seduta fotografica con la mela in mano. Ed ecco che di colpo mi sono sentita meglio. Scoprire di avere tre cose, dico TRE, in comune con Belén è un toccasana per l'umore.
Magari può essere che, da qui al prossimo anno, io scopra di averne altre in comune con lei! Va a finire che il prossimo anno ci vado io a far vedere la farfallina sul palco dell'Ariston!

Tanto ce l'ho sulla caviglia.

venerdì 17 febbraio 2012

Quello che le donne dovrebbero dire

C'è una canzone, che tutte le donne conoscono, che più o meno tutte adorano e nella quale tutte si ritrovano, che però è scritta da un uomo: sto parlando di "Quello che le donne non dicono", interpretata magistralmente da Fiorella Mannoia.
Ebbene, l'uomo che l'ha scritta, Enrico Ruggeri, conosce bene l'animo femminile e soprattutto ne conosce un aspetto fondamentale: la propensione delle donne a sentirsi crocerossine, a sentirsi geishe, a sentirsi materne e protettive, tant'è vero che, nella canzone, uno dei passaggi fondamentali recita "...tanto ci potrai trovare qui, con le nostre notti bianche, ma non saremo stanche, neanche quando ti diremo ancora un altro sì". La canzone parla delle donne, ma si rivolge agli uomini. Il messaggio che ne esce è fondamentalmente questo: siamo complicate, siamo delicate, siamo tutto quello che ti pare, ma se ci fai due moine, ci porti delle rose e "nuove cose", anche se siamo distrutte da "sere tempestose" ci dedicheremo completamente a te e a tuoi problemi e ti diremo sempre e solo "sì".
Il titolo della canzone è ovviamente incompleto, perché dovrebbe essere "Quello che le donne non dicono ma tutti gli uomini sanno".
Perché non c'è nulla di più vero del fatto che, fin da bambine, ci viene insegnato a dire sempre di sì e a sentirci in colpa quando diciamo un no. Abituate al fatto che, anche se stiamo male, se siamo malate, se non ce la facciamo ad alzarci dal letto la mattina, dobbiamo farci comunque in quattro e trovare la forza per accontentare i nostri uomini (siano essi padri, mariti, figli) non ci accorgiamo di quanto, ancora oggi, gli uomini si approfittino di questa cultura della sottomissione della donna. E anche loro, gli uomini, sono talmente abituati a sentirsi dire sempre di sì che, nel momento in cui ricevono un no si sentono mancare l'aria e la terra sotto i piedi.
Ultimamente mi è capitato di dire un no bello forte e deciso. Un no a una vita che non volevo, che non mi rendeva felice e che mi aveva ridotta ad essere la donna che mai avrei voluto diventare. Ma come era prevedibile, pur avendo avuto il coraggio di dire quel benedetto no, mi sono sentita (e mi sento ogni giorno) in colpa. Ho spesso la tentazione di voler tornare indietro e chiedere scusa per quel no, chiedere perdono per avere osato ribellarmi alla regola del "ti diremo ancora un altro sì".
Il coraggio di dire quel no molte donne non ce l'hanno, perché quel no fa soffrire loro per prime. Le fa sentire cattive, ribelli, meno devote e quindi meno femminili. Le fa sentire in colpa e "diverse".
Ogni giorno mi chiedo perché, se quel no è la cosa più giusta che potessi dire (me lo sento ripetere da tutti e me lo ripeto da sola, sempre) soffro ancora così tanto. Perché Ruggeri non ha scritto quel verso nella maniera che sarebbe (dovrebbe essere) più giusta? "Ma non avremo colpa, neanche quando ti diremo ancora un altro no".

giovedì 16 febbraio 2012

La Disperazione è seduta su una panchina

In un giardinetto su una panchina
C'è un tale che vi chiama se passate
Ha un paio d'occhialini un vecchio abito grigio
Fuma un piccolo sigaro è seduto
E vi chiama se passate
O più timidamente vi fa un cenno
Non bisogna guardarlo
Non bisogna ascoltarlo
Ma tirar dritto
Fingere di non vederlo
Fingere di non averlo neppure sentito
Passare via frettolosi
Perchè se lo guardate
O se gli date retta
Vi fa un suo cenno e niente nessuno
Vi può impedire di sedergli accanto
Allora vi guarda in faccia vi sorride
Facendovi soffrire atrocemente
E lui continua il suo sorriso
E voi stessi sorridete esattamente
Di quel sorriso
Più sorridete e più soffrite
Atrocemente
E più soffrite più sorridete
Irrimediabilmente
Restando fissi là
Come congelati
Sorridendo sulla panchina
Bambini giocano a due passi da voi
Passanti passano
Tranquillamente
Uccelli volano
Volano via da un albero
Si posano su un altro
E voi restate là
Sulla panchina
E già sapete bene
Che non potrete più
Giocare come quei bambini
Sapete che non potrete più
Passare come quei passanti
Tranquillamente
Né che mai più potrete volar via
Lasciando un albero per l'altro
Come quegli uccelli.

La Disperazione è seduta su una panchina, Jacques Prévert

lunedì 13 febbraio 2012

"...and I wish you joy and happiness..."

E così un'altra grande star della musica internazionale ci ha lasciati. Sto parlando ovviamente di Whitney Houston, una delle regine incontrastate del pop e, a mio avviso, una delle voci più belle mai sentite. Il successo lo ha ottenuto soprattutto negli anni '80 e i primi anni '90, poi purtroppo l'abuso di droga di alcool, come spesso accade a star del suo livello, le hanno stroncato la carriera e, ieri, anche la vita: è stata trovata morta nella sua stanza d'albergo a Beverly Hills, strafatta di famaci e alcool e annegata nella vasca da bagno. Aveva solo 48 anni.
Subito, la memoria è corsa a quel film della quale è stata protagonista e che ha fatto sognare milioni di donne in tutto il mondo: "The Bodyguard". L'attore co-protagonista era Kevin Kostner, alias Franck Farmer, ex agente segreto che decide di accettare di fare da guardia del corpo alla bellissima, famosissima, bravissima Rachel Marron, cantante e attrice (quindi la Houston in quel film recitava la parte di se stessa) con un figlioletto a carico, senza marito, ricca sfondata, con una candidatura agli Oscar, e minacciata di morte da un pazzo. La trama, di per sé, è più che scontata ed è costruita su misura per far leva su una delle fantasie femminili più ricorrenti: essere ricche e in pericolo e avere una storia con un uomo forte e affascinante, che ti fa da guardia del corpo e che sarebbe disposto a morire per te. Nello specifico la guardia del corpo (e il corpo glielo guarda davvero bene) è un tipo di poche parole (per citare una canzone dei Pooh "parla poco e non promette ma sa scaldare le tue notti"), è furbo, deciso, addestrato, rassicurante, coraggioso, un po' burbero, stronzo quanto basta e bellissimo. Come non innamorarsi? E infatti la bella e viziata Rachel, dopo un primo momento di freddezza, perde la testa per lui, e le spettatrici anche.
Parlavo qualche tempo fa delle scene finali dei film. Ecco, questo film direi che ha una delle scene finali più belle che abbia mai visto (sempre dopo quella di "Ufficiale e Gentiluomo", va detto). La bella Rachel, dopo essere stata salvata da Franck durante la cerimonia della consegna degli Oscar (lui ha quasi rischiato di morire per salvarla, beccandosi una pallottola al posto suo) è in aeroporto, vicino al suo jet privato, e Franck, che ha deciso di tornare a fare il suo vecchio lavoro, è lì per salutarla per sempre: non possono stare insieme, si stanno dicendo addio. Si salutano freddamente, lei monta sull'aereo, lui le fa ciao con la manina (quella sana, perché l'altro braccio è fasciato); lei dall'aereo lo guarda e poi, di colpo, si alza, fa fermare tutto, scende di corsa dalla scaletta e gli si getta addosso, cominciando a baciarlo: la telecamera gira intorno alla coppia mentre la canzone in sottofondo recita "I will always love you" e loro si scambiano il loro ultimo, disperato, lunghissimo bacio d'addio.
Meravigliosa.
Ti ameremo per sempre, Whitney, non solo per le bellissime canzoni e per la voce stupenda, ma anche per questa scena che è un vero e proprio sogno ad occhi aperti. E i sogni, di questi tempi, sono merce molto molto rara!

venerdì 10 febbraio 2012

Riempire il vuoto scalando le montagne

"É strano pensare di una persona così vicina che potresti non rivederla mai più. Senti spalancarsi un vuoto, ma non sul futuro, che vuoto lo è quasi sempre. È il passato che sembra sprofondare, passare una volta per tutte, diventare fotografia."   Wu Ming, "54"
Già, la sensazione di vuoto. Credo sia la cosa peggiore che possa capitare a qualcuno. Sto combattendo da quasi un mese contro quella sensazione e mi sembrano passati secoli. Ho fatto letture in proposito e ho scoperto che, spesso, la gente preferisce rimanere in situazioni dannose, talvolta addirittura pericolose per la sua salute piuttosto che scegliere il vuoto. Perché è inutile negarlo: il vuoto fa paura, ti costringe a rimettere in discussione tutta la tua vita, ti costringe a combattere con tutti i demoni che avevi nascosto dietro a qualcuno che d'improvviso non c'è più. E in ogni momento pensi "no, non ce la posso fare!". Il terrore di non riuscire ad andare avanti, unita alla certezza di non poter tornare indietro è qualcosa che mette in ginocchio anche i più forti. Ma è lì che deve entrare in gioco la razionalità: non si può tornare indietro, non si possono rimediare gli sbagli fatti in passato, inutile stare lì anche a piagnucolare dicendo: "se avessi fatto, se avessi detto, se avessi pensato...". L'unica cosa che si può fare è, inevitabilmente, andare avanti. Sembra lapalissiano ma non è così semplice invece. Molti si fermano, non riescono ad andare avanti, aspettano solo che il tempo passi. Perché è come scalare una montagna: se quando sei a terra guardi quanto è in alto la cima potresti scoraggiarti, potresti rinunciare, potresti essere sopraffatto dalla paura. Bisogna invece procedere per piccoli traguardi: guardare la prima roccia sporgente cui potersi aggrappare e concentrarsi solo su quella, come se quella fosse il traguardo, perché in un certo senso lo è. È il traguardo della prima tappa. È la piccola vittoria che ti dà il coraggio di affrontare la seconda, e poi la terza e così via. Per quello che mi riguarda, ho già superato la prima tappa: sono riuscita a sconfiggere il senso di colpa che mi attanagliava. O almeno, l'ho messo a tacere (forse "sconfiggere" è una parola troppo grossa, ancora). La seconda tappa, quella sulla quale sto lavorando, è quella di non mettersi a piangere ogni volta che sono sopraffatta da un ricordo. Cosa non semplice, ma fattibile. Per ora le mie attenzioni sono rivolte solo a quello. La terza tappa, si vedrà: l'importante è avere la certezza che ci sia.

giovedì 9 febbraio 2012

La prossima volta, citofonare Maya

"Sono stata anch'io bambina, di mio padre innamorata, per lui sbaglio sempre e sono la sua figlia sgangherata, ho provato a conquistarlo e non ci sono mai riuscita e ho lottato per cambiarlo... ci vorrebbe un'altra vita!"
Mia Martini, "Gli uomini non cambiano"

Ed ecco condensata in tre righe la mia vita con mio padre. Non avrei potuto esprimerla meglio o più sinteticamente.
Giusto stamattina la mia cara macchinina, la Fiat 600 grigio perla (l'unica al mondo con anche il tettuccio apribile, credo), che è stata la mia migliore e più fedele amica negli ultimi 12 anni (quella macchina ha visto cose che voi umani...), ha deciso che era l'ora di prendersi un periodo di riposo e quindi si è spenta di colpo lasciandomi a piedi, per strada, disperata e al freddo. Non ho assolutamente idea di cosa sia potuto succedere, le ipotesi sono varie e molteplici. La cosa interessante però è che mio padre, venendo in mio soccorso, mi ha subito detto che la colpa era mia e che io avrei dovuto, cito testualmente, "prevedere un evento del genere", poiché "la macchina è vecchiotta" e a me "basta solo che si metta in moto e parta" mentre dovrei, secondo lui "essere esperta di motori e controllarla periodicamente" perché altrimenti "a scuola guida che ci sono andata a fare?". Ok, ammetto che di motori non ne capisco nulla. Però so riconoscere una spia che si accende o un rumore sospetto e posso giurare che stamattina la macchina è partita come sempre, senza allarmi, rumorini o spie rosse, e io purtroppo non sono in grado di prevedere incidenti e catastrofi. Metto in promemoria, per le prossime volte che prenderò l'auto, "citofonare Maya".
Tuttavia questa è solo l'ultima, in ordine di tempo, delle colpe che mi vengono periodicamente attribuite dal mio tutt'altro che comprensivo genitore.
La volta che tentarono di rubarmela, sempre quella povera sfortunata 600, e la trovai mezza scassinata (ma lei, poverina, eroicamente aveva resistito al tentativo di furto), mio padre mi attribuì la colpa, dicendomi che "l'avevo parcheggiata in un luogo malfamato!". Per la cronaca, la macchina era in sosta in un parcheggio in pieno centro città e, quando ero arrivata, l'avevo parcheggiata vicino ad un'auto dei Carabinieri. Ma l'apice lo raggiunse quando la trovai rigata: mi disse che era colpa mia perché avevo parcheggiato la macchina "senza prima aver guardato la condizione delle macchine accanto" perché "se le macchine accanto sono ben tenute, vuol dire che poi il proprietario, uscendo dal parcheggio, farà attenzione a non urtare le vetture vicine, essendo persona precisa ed accorta".
Se per caso, quando vado a fare la spesa, non trovo una cosa che gli serve, perché proprio non è presente sugli scaffali, indovinate un po'? Mi dice che è colpa mia, perché sono andata al supermercato in un orario in cui "dovrei sapere che la roba è terminata". Quando gli hanno trovato le analisi completamente sballate (trigliceridi e colesterolo alle stelle), la colpa è stata mia, sapete? Eh sì. Perché sono io quella che cucina e fa la spesa e dovrei "evitare di comprare dolci, formaggi, salumi" perché poi, se sono in casa e lui li vede, "non riesce a fare a meno di mangiarli". Il fatto che con noi abitino altre due persone sanissime, mio nonno e mia madre, che possono mangiare quello che vogliono, per lui non ha la minima importanza. Il fatto che anch'io sia malata di diabete eppure riesca a cucinare un dolce senza mangiarmelo, mi rende ai suoi occhi "sovrumana": lui non ci riesce e io devo capirlo ed evitare di cucinare manicaretti. Ovviamente, quando una cosa invece non la sbaglio, la faccio bene, arrivo prima degli altri "ho fatto solo e soltanto il mio dovere".
Potrei andare avanti all'infinito, ma il concetto mi pare chiaro. Che poi fa presto la gente a dire "Ma perché hai tutti questi sensi di colpa? Perché chiedi sempre scusa e ringrazi per nulla? Perché hai così poca autostima?".
Non credo che ci voglia una Laurea in psicologia per capirlo.

mercoledì 8 febbraio 2012

Capelli rosa per combattere il tempo che passa

C'è, per una donna, una condizione peggiore di quella di trovarsi invecchiata, ed è quella di essere "invecchiante", ovvero il momento di passaggio tra l'età adulta e quella senile, in cui una donna non si rassegna e combatte con ogni mezzo, lecito e illecito, per contrastare il tempo che passa. Ora, dato che per tutte non è uguale, non si può certo stabilire un'età esatta in cui la donna si trovi nella fase "invecchiante". Tuttavia, data l'esperienza maturata sul campo, avendo avuto a che fare con commesse, dottoresse, parrucchiere, fruttivendole, cassiere, avvocatesse, impiegate ecc... ho individuato tale momenti critico fra i 55 e i 70 anni (anche se per talune comincia molto prima e per talaltre non finisce mai).
Nello specifico la fase "invecchiante" comincia dai capelli. L'altro giorno ero al supermercato e sono passata vicino a una commessa, la cui età anagrafica oscillava intorno ai 55/60 anni, pettinata come un'adolescente in piena ribellione: testa rasata da una parte, capelli lunghi dall'altra. Sembrava appena uscita dal film "Uomini che odiano le donne"... e lasciatemi dire che hanno ben ragione a farlo se si conciano così! Ci sono quelle che a 70 anni suonati e coi capelli tutti bianchi si ostinano a portarli lunghi e sciolti sulle spalle come Romina Power negli anni '80.
Superata la prima tappa, la fase invecchiante si estende dai capelli a tutto il resto: sarà capitato a tutti voi di incontrare quelle che, se le vedi da dietro, sono bionde come Paris Hilton, vestite come Paris Hilton, coi tacchi di Paris Hilton, e quando si girano hanno la faccia di Margherita Hack.
In questa lista non si può evitare di menzionare coloro che fanno ampio uso della chirurgia estetica, tirando, riempiendo, modellando tutto ciò che col tempo cade, si svuota e perde forma, al punto che queste donne andrebbero rinchiuse con la camicia di forza nei manicomi insieme ai loro chirurghi.
Ma senza arrivare a casi così estremi, meritano una menzione d'onore quelle "sciure" che, a 55 anni suonati, coi mariti distratti che non le soddisfano più, decidono di farsi un tatuaggio (e di solito, il più gettonato, è una rosa su una tetta), rinnovano il look, comprano biancheria intima costosa e si iscrivono a un corso di ballo, in cui sperano di incontrare il simpatico trentenne che le faccia sentire ancora sessualmente appetibili.
Ci sono poi quelle che, magari sposatesi da molto giovani, decidono di fare a 60 anni ciò che non hanno fatto a 20/30/40 anni: ed eccole che le vedi mettersi le tute e le scarpe da ginnastica color confettino, leggere libri di Moccia, "innamorarsi" degli attori di vent'anni, andare ai concerti dei Modà e passare tutti i pomeriggi su Facebook a taggare le amiche.
Bè, che devo dirvi? Mi fanno tenerezza queste donne. Perché hai voglia di dire "a me non succederà mai". Ho detto questa frase troppe volte in passato e poi mi sono ritrovata a fare proprio quelle cose a cui avevo attribuito, presuntuosamente, il "mai". E allora sorrido ogni volta che ne incontro una  pensando a quando arriverà anche per me il momento di tingermi i capelli di rosa e di farmi un tatuaggio "molto ribbbelle" su una tetta. Sempre meglio avere i capelli rosa che i capelli bianchi!

domenica 5 febbraio 2012

Col senno "di mai"

"Io ti ho amato, André, e non saprei immaginare come si possa amare di più. Avevo una vita, che mi rendeva felice, e ho lasciato che andasse in pezzi pur di stare con te. Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce ad immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. È scoppiata tutto d'un colpo. C'erano cocci ovunque, e tagliavano come lame."
Alessandro Baricco, "Oceano mare"

...quello che uno si domanda poi è: ne valeva la pena? Mandare in pezzi la propria vita per un'illusione di felicità che scoppia tutto d'un colpo lasciando cocci affilati come lame ovunque?
La risposta più logica, quella che ognuno darebbe, col famoso senno di poi, è no, non ne valeva la pena. Eppure, evidentemente, il senno io non ce l'ho, nemmeno quello "di poi", perché la mia risposta continua ad essere sì.
Lasciando da parte tutte le frasi trite e ritrite da canzoncine neo melodiche "amare vale sempre la pena" "l'amore non è mai una perdita di tempo" ecc... io credo che, sostanzialmente, valga sempre la pena fare tutto quello che facciamo perché è proprio questo che è, la vita. Fare esperienze, fare errori, fare conoscenze, fare felici gli altri, farsi del male, farsi del bene... la vita è "fare".
Vedo troppe persone stare alla finestra a guardare (e spesso giudicare) le esistenze degli altri, domandandosi come sarebbe vivere certe esperienze, credendo perfettamente di sapere cosa farebbero in situazioni simili pur non avendole mai vissute e, sempre, ogni volta, anche nei momenti peggiori, in cui gli errori fatti in passato mi provocano un'angoscia tale da impedirmi quasi di respirare, mi dico che non cambierei un solo istante della mia vita con queste persone.
Per questo mi viene da sorridere ogni volta che mi viene detto "devi riprendere in mano la tua vita". Perché è proprio quello che invece sto facendo: ho in mano la mia vita, che in questo momento è alla deriva, è disorientata, annaspa nel mare di emozioni che attimo dopo attimo devo affrontare, e ora non posso fare altro che starle vicino, guardare giorno per giorno che strada vorrà prendere e assecondarla. Non posso impedirle di stare male, perché adesso è normale che sia così. Lascio che semplicemente vada dove vuole, in questi giorni di totale confusione, in attesa che si ripresenti l'occasione giusta (e so che arriverà) per rimettersi in carreggiata, pronta ad affrontare nuove esperienze e nuovi errori. Che varranno la pena di essere vissuti, sempre. La mia vita non starà mai alla finestra.

venerdì 3 febbraio 2012

Omìni senza la U

Ultimamente non ho una grande fiducia nel confronti della popolazione maschile. Saranno le esperienze poco entusiasmanti, sarà la tendenza a voler vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, sarà che gli antidepressivi mi tolgono la depressione sì, ma mi aumentano il cinismo, ma ultimamente appena vedo un uomo provo un senso di fastidio di fondo e subito penso "sarà un bugiardo, traditore, infame come tutti gli altri". Ok, sono consapevole che il mio non sia propriamente un giudizio obiettivo, so che là fuori ci sono milioni di uomini che non tradiscono, che non mentono, che non manipolano, che non ingannano, che non umiliano. Ma certo, anche i fatti di cronaca che ultimamente hanno catturato l'attenzione di tutta Italia non aiutano ad aver fiducia negli uomini. Pensate alla povera Melania Rea. Che marito si era trovata! Che lui l'abbia ammazzata o meno, è comunque sicuro che la tradisse da tempo con diverse ragazze, la cui ultima in ordine di tempo era Ludovica. Due vittime, Melania e Ludovica, di un uomo bugiardo, narcisista, talmente pieno di sé ed egocentrico da non pensare nemmeno per un attimo al male che stava facendo ad entrambe. Perché certi uomini sono così, non c'è verso: pensano che la vita delle donne che si innamorano di loro sia nelle loro mani, pensano di poter fare tutto, di poter dire tutto, senza avere un minimo senso di colpa, senza mai fermarsi a pensare cosa davvero voglia dire giocare con la vita delle persone. 
Uomini che mentono e sono talmente imprigionati nella ragnatela delle loro stesse bugie che poi impazziscono e non sanno più come uscirne, uomini che, pur di salvare la faccia, sono disposti a negare l'evidenza, riuscendo così solo ad apparire ridicoli e patetici.
Schettino, l'ormai tristemente famoso Comandante della Costa Concordia, la nave naufragata all'Isola del Giglio, aveva un'amante, una ragazza moldava che lo seguiva ovunque, e che ora ha confessato di essere innamorata di lui. E lui cosa fa? Ovviamente nega tutto, dice che la ragazza era "solo un'amica, un'amica di tutti". E "solo un'amica" era anche Sabrina per Ivano, l' "Alain Delon" di Avetrana: lui con Sabrina aveva una relazione (lo provano tutti gli sms che i due si scambiavano) ma adesso Ivano dice che erano solo amici, che era lei ad avere per lui un'ossessione ed è perfino arrabbiato perché sostiene che Sabrina gli abbia "rovinato la vita" coinvolgendolo nelle indagini del delitto della cuginetta di lei, Sara, per la quale Sabrina è accusata (e ricordiamo che secondo gli inquirenti, Sabrina avrebbe ucciso Sara perché gelosa della ragazzina, sempre a causa di Ivano).
E poi ci sono quelli che considerano le donne come oggetti: uomini che iniziano a dirti "non metterti quel vestito, non tagliarti così i capelli, non metterti quel rossetto", e poi magari passano agli insulti, agli schiaffi, alle "punizioni" perché tu osi ribellarti, perché magari mostri di non gradire certe cose e lo dici a voce alta e allora sei "cattiva" ed è "colpa tua" se li costringi a trattarti così. E da lì, poi, se non sei in grado di liberarti da questa morsa, a volte arrivano alle violenze e ai soprusi, e nei casi più gravi all'omicidio.
Alla base di tutti questi comportamenti maschili, ci sono sempre e solo l'egoismo, l'egocentrismo e la totale mancanza di una coscienza. Per questi uomini le donne sono bambole nelle loro mani, e vorrebbero che, proprio come delle bambole, stessero zitte a farsi fare di tutto, inanimate, sempre sorridenti, sempre disponibili a giocare.
So che non si deve fare di tutta l'erba un fascio, ma in certi momenti, in questi momenti, ho l'impressione che, nella vita di ogni donna ci sia o ci sia stato in passato un uomo del genere e non posso fare a meno di pensare alle mamme di questi uomini, che spesso sono responsabili, perché avallano e giustificano i comportamenti dei loro figli, che vedono nelle donne (donne come loro) il vero nemico. Mamme che a loro volta sono probabilmente state vittime di padri padroni, in un circolo talmente vizioso che non si riesce più a capire chi sia il perseguitato e chi il persecutore. Ed è quindi alle mamme dei bambini di oggi che mi rivolgo: spezzate questo circolo vizioso e insegnate ai vostri figli che le donne non sono bambole e che devono essere rispettate, che non si gioca con la vita delle persone, che prendersi le responsabilità delle proprie azioni e saper ammettere i propri errori è la vera grande dote che distingue gli Uomini con U maiuscola, da quelli con la u così piccola da essere invisibile : omìni, omunculi, ometti.

giovedì 2 febbraio 2012

Occhi color Febbraio

"Volevo scriverti una storia sulla magia. Volevo conigli che spuntassero dai cappelli. Volevo palloni che ti sollevassero fino al cielo. Ma è diventato tutto nient'altro che tristezza, guerra, afflizione. Non l'hai mai visto, ma dentro di me c'è un giardino."
Shame Jones, "Io sono Febbraio"
Non so se avete mai letto questo libro, "Io sono Febbraio", del giovane scrittore americano Shane Jones. La storia è una fiaba moderna: dopo l'arrivo di Febbraio una cittadina è rimasta intrappolata in un inverno perenne, dove i colori, la luce e il sole sono ormai solo un ricordo lontano e la depressione si abbatte sull'intera popolazione. Come se non bastasse, in questo quadro di desolazione assoluta e di angoscia, lo spirito di Febbraio arriva perfino a bandire il volo, obbligando i suoi sacerdoti a bruciare tutti i libri che parlano di aeroplani, di uccelli e di qualsiasi cosa che possa volare. Né mongolfiere né aquiloni, è tutto vietato, perfino i palloncini colorati. I cittadini non possono fare altro che  sperare che Febbraio decida presto di andare via. Ma a un certo punto i bambini cominciano a scomparire e, fra questi, c'è anche la piccola Bianca, figlia del protagonista Thaddeus Lowe. Ed ecco che, a quel punto, tutti decidono di ribellarsi a Febbraio e al lungo, freddo e angoscioso inverno cui li ha condannati. Non posso fare a meno di pensare che, per lungo tempo e ancora adesso, io stessa ho vissuto un lungo inverno, senza luce, senza speranza e senza la possibilità di volare. Certe persone arrivano nella nostra vita lasciando il gelo, tirando fuori la parte peggiore di noi, impedendo a quel giardino fiorito che ci portiamo dentro di profumare la nostra esistenza e quella delle persone che ci circondano, impedendo ai palloncini che colorerebbero le nostre giornate di volare, ricoprendo le nostre teste di un cielo sempre grigio, monocolore. C'è una canzone di Battisti, "Fiori rosa, fiori di pesco" che recita: "Credevo che l'azzurro di due occhi per me fosse sempre cielo e non è". Nel mio caso, non potrebbe essere più vera di così. Tanto azzurri erano quegli occhi quanto grigia la vita che mi prospettavano, tanto belli quanto freddi e angoscianti, privi di speranza. Proprio come l'inverno del libro "Io sono Febbraio". Non sarà facile liberarsi dall'ombra invisibile di quegli occhi che per lungo tempo mi hanno tenuta incatenata ad un mondo il cui unico colore che vedevo era proprio quell'azzurro ingannevole; ma rispetto a qualche giorno fa, in cui pensavo che non sarebbe mai finito l'inverno, già sento di poterci riuscire e ogni tanto vedo un pallido, tiepido raggio di sole. E questa per me è già una grande vittoria.

mercoledì 1 febbraio 2012

La neve che riscalda

Che bello svegliarsi la mattina e trovare la neve! Per tutta la notte ho sentito il vento che tirava forte e una vera e propria bufera si abbatteva su Zambra, il paesino in provincia di Pisa dove abito. Poi pian piano il vento si è placato e stamattina, aprendo un occhio, mi sono accorta subito che fuori c'era una luce diversa. Come i bambini, sono corsa alla finestra e ho visto tutto quell'immenso soffice candore che aveva ricoperto i tetti, i prati e gli alberi. Mi sono infilata una felpa sul pigiama, un piumino, la sciarpa, i guanti e il cappello e, armata di macchina fotografica, insieme alla mia Mei Li (chi segue questo blog sa benissimo di chi parlo), sono scesa giù per le vie del paesello a immortalare un fenomeno che, per noi abitanti di queste zone, è un evento raro (e pensate, è già il secondo anno di seguito che nevica a Pisa, anche se poi dura un solo giorno).
Cosa avrà la neve di così speciale da rendere tutti quanti contenti, appena arriva? Certo, il fatto che per noi sia rara è sicuramente un fattore importante: uno che abita in Val d'Aosta probabilmente starà ridacchiando di questo entusiasmo. Ma c'è qualcos'altro: perché anche chi è abituato alla neve non riesce a trattenere l'euforia e la meraviglia di fronte a questo spettacolo della natura. Tutto quel bianco inebria e insieme tranquillizza, il paesaggio diventa più soffice, sia al tatto che alla vista, perfino i suoni sono più morbidi e delicati. È come se, in qualche modo, la natura costringesse tutti noi, che spesso le siamo indifferenti o peggio la maltrattiamo, a guardarla. Come una bella donna che si mette un abito da fiaba e costringe chiunque la incontri a fermarsi per ammirarla.
E forse proprio in quel verbo, "fermarsi", è  racchiusa la magia della neve. Viviamo freneticamente la nostra vita, siamo tutti stressati, esauriti, sempre di corsa, sempre indaffarati e nevrotici. La neve ci costringe a rallentare e dunque, inevitabilmente, a riflettere e ad osservare, ascoltare, toccare ciò che ci circonda.
Copre tutto, ci fa vedere le cose sotto un'altra prospettiva e in qualche modo, concedetemi l'ossimoro, ci riscalda.