"Tu non sai quanto la morte li attiri. Morire è sì un destino per loro, una ripetizione, una cosa risaputa, ma s'illudono che cambi qualcosa"
Cesare Pavese, "Dialoghi con Leucò"
Chissà cosa si prova. Un attimo prima corri, parli, sorridi e un attimo dopo sei morto. È così che è sucesso a Piermario Morosini, il calciatore del Livorno che sabato scorso, durante una partita, si è accasciato per terra ed è morto a 25 anni.
Ed è così che è successo a Marco Simoncelli, 24 anni, morto appena 6 mesi fa in un incidente così diverso (lui stava correndo in moto sul circuito di Sepang, durante il Gran Premio della Malesia) eppure così uguale.
E ricomincia una storia, che è sempre diversa ma è sempre la stessa: vediamo a ripetizioni le immagini del momento esatto della morte, vediamo i familiari e gli amici abbracciarsi e piangere, i tifosi mettere striscioni; vediamo fotografie con la fidanzata fatte in qualche vacanza al mare o in montagna, sentiamo sempre le stesse parole "era un ragazzo semplice, come tanti". Certo che era come tanti. Come se per il solo fatto di essere famoso e/o di guadagnare qualche soldo in più lo potesse rendere diverso, sovrumano, immune alle brutture della vita.
E i giornali e le tv indugiano sulle lacrime, sugli abbracci straziati e strazianti, sulle immagini dei due ragazzi sorridenti e sereni che stridono con la realtà del presente.
La morte continua ad essere il tabù che più ci attrae. È una sensazione quasi morbosa quella che proviamo ogni volta che passano le immagini di queste morti "pubbliche", quella che ci spinge a riguardarle e riguardarle all'infinito. Non ci credo, era così giovane, non è giusto, poverino, che pena, guarda lì, è successo proprio in quel momento.
E la morte diventa spettacolo, passando in un certo senso da un fatto reale a un fatto "da reality". Cos'è che ci colpisce tanto? Il renderci conto che può succedere a chiunque, anche a coloro che sembrano invincibili? Scoprire di botto che viviamo tutti quanti nell'illusione di essere eterni? Oppure siamo attirati dal vedere come si muore? Cosa succede? Cosa si prova? Soffrirà? Se ne renderà conto?
Viviamo in un mondo che ha paura perfino di pronunciarla la parola "morte": se n'è andato, ci ha lasciati, non è più con noi, è passato a miglior vita. "Andò a ricevere il premio della sua carità", diceva il Manzoni ne "I promessi sposi".
In un periodo storico che tende, a livello linguistico, a semplificare tutto, la morte è un concetto che, per essere espresso, ha ancora bisogno di perifrasi complicate, di eufemismi.
Se riuscissimo ad approcciarci alla morte con maggior serenità, forse eviteremmo lo scempio mediatico che ci viene proposto ogni volta che qualcuno muore davanti ad una telecamera. Forse riusciremmo a spegnerla, quella telecamera, e restituiremmo a quei ragazzi un loro diritto, che poi è un diritto di tutti: quello di essere, almeno di fronte alla morte, persone e non personaggi.
N.B. La frase che dà il titolo a questo post è una citazione di Teobaldo Ciconi
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