venerdì 24 febbraio 2012

Oggi si va sul classico: Manzoni

Torniamo un po' alla mia amata letteratura, quella snobbina e impegnata, tanto per non perdere l'abitudine. Oggi voglio condividere con voi una delle più belle pagine che, a mio avviso, siano state scritte nella storia della letteratura, tratta nientepopodimenoché da "I promessi sposi". Voi direte: "grazie al piffero, è Manzoni!". Bè, certo, il sig. Alessandro sapeva scrivere benino, si sa. Ma all'interno dei capolavori che ha scritto nell'arco di tutta la sua vita, quella che oggi voglio riportare qui è il capolavoro dei capolavori. Qualcosa di sublime. Una paginetta che ho letto per la prima volta in un'antologia alle elementari, e che probabilmente ha segnato in maniera indelebile il mio destino, avvicinandomi definitivamente alla letteratura (e allontanandomi dalla matematica). Non ho mai più letto nulla che mi scatenasse emozioni simili come quando ho letto questo passo, e tutt'ora ogni volta che lo leggo mi salgono le lacrime agli occhi e mi lascio trasportare dalla musicalità del brano (provate a leggerlo ad alta voce: vi accorgerete che ci vuole una giusta intonazione e che potrete "ascoltare" le costruzioni sintattiche e la scelta dei vocaboli così come si ascolta un brano musicale).
Il brano è conosciuto come "La morte di Cecilia": siamo a Milano, decimata dalla peste; Renzo sta attraversando la città piena di gente affamata, disperata e impaurita, piena di morti e di carri guidati dai monatti che li portano via con indifferenza e insensibilità. E d'un tratto si apre davanti agli occhi di Renzo questa scena "di singolare pietà, una pietà che invogliava l'animo a contemplarla": una mamma, malata anche lei, sta portando verso il carro di un monatto la sua bambina, Cecilia, di circa nove anni, morta. L'ha vestita a festa e pettinata con cura e la sta portando in braccio come se fosse ancora viva, con una dolore dignitoso che commuove perfino il monatto. La mamma posa sul carro Cecilia e le parla con dolcezza, salutandola, e torna in casa, affacciandosi alla finestra con un'altra bambina in braccio (ancora viva ma "coi segni della morte in volto") con la consapevolezza che di lì a poco tutte quante si ricongiungeranno nella morte.
Scontati i brividi per quell'ultima metafora, quella proprio alla fine del brano, che rileggerei mille e mille volte ancora.
Voi non li sentite?

"Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono piú forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.” Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.”
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, piú per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi,” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.”
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina piú piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato."

Alessandro Manzoni, "I promessi sposi"

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