mercoledì 14 dicembre 2011

Il giorno che sono diventata adulta

Fra poco saranno undici anni. Undici anni che non ho potuto parlare con lei, non ho potuto raccontarle nulla della mia vita complicata e non ho potuto cercare consolazione da lei quando ho scoperto di avere il diabete. Mia nonna aveva 63 anni quando, a causa di una leucemia, è morta. Io ne avevo 22 e, anche se non ero affatto pronta, il giorno in cui se n'è andata è stato anche quello in cui è finita la mia infanzia.
Mi ha fatto da mamma, e non è una frase fatta. Fra me e mia madre (sua figlia) ci sono solo 19 anni di differenza. Sposandosi presto e avendo avuto una bambina così giovane, mia madre è rimasta un'eterna ragazzina. Mio padre, di dieci anni più vecchio, l'ha sempre un po' trattata come un'altra figlia e quindi lei si è posta sempre nei miei confronti quasi più come una sorella che come una mamma di quelle classiche. Tutt'ora mi ruba i vestiti e i trucchi, è fan di Twilight molto più di me e ascolta i Modà.
Vivevamo tutti insieme in questa grande casa nella campagna pisana, i miei genitori, i miei nonni materni, la mia bisnonna (mamma della mia nonna) ed io. Poi nel 1992 morì la mia bisnonna e mia nonna divenne il grande perno cui attorno girava tutta la famiglia.
Lei pensava a tutto e prendeva tutte le decisioni. È stata lei ad insegnarmi a cucinare; se avevo un problema era la prima persona a cui mi rivolgevo, e probabilmente era l'unica al mondo che sapeva capirmi ancora prima che parlassi. Non aveva studiato oltre la licenza elementare, ma era sveglia ed intelligente, con occhi furbi e scrutatori; difficilmente riuscivi a fregarla ed aveva un'innata propensione alla battutina tagliente (dote che mi ha trasmesso tale e quale).
Quando ha scoperto di essere malata, due anni prima che morisse, abbiamo fatto di tutto per tenerle nascosta la verità (ovvero che la sua malattia le lasciava davvero poche speranze di vita) perché i dottori ci avevano consigliato di non mandarla in depressione, in modo che reagisse bene alla chemioterapia. In due anni l'ho vista perdere i capelli, coprirsi di lividi a causa delle micro emoraggie che le procurava la malattia, smettere di camminare e di mangiare, avere la febbre talmente alta da non riuscire a parlare. Mia madre e mio padre erano sempre fuori casa per lavoro, mio nonno non era in grado di assisterla, e quindi toccava a me. Lo facevo sempre col sorriso e col tono di chi fa una cosa piacevole, scherzavo con lei sui capelli che cadevano e sulla parrucca, le cucinavo le cose che puntualmente finivano nella pattumiera e mi prendevo in giro dicendole che non ero brava come lei. Poi, la notte, piangevo. La sensazione di impotenza di fronte a una persona che sta morendo, la paura di vederla peggiorare da un giorno all'altro, la speranza, sempre vana, di vedere un qualche miglioramento dalle analisi che le venivano fatte settimanalmente e poi giornalmente, sono sensazioni che ancora oggi, dopo undici anni, popolano spesso i miei incubi.
È morta appena dopo Natale, nel 2000, il 29 Dicembre. Una delle cose che mi ha sempre straziata e insieme mi ha resa orgogliosa di lei è che non si è arresa, mai, fino alla fine. La morte l'ha trovata vigile. Un attimo prima di morire, nel letto del reparto malati terminali dell'ospedale, si è rivolta a mio padre, che era lì che le teneva la mano, e gli ha detto "guarda, c'è il dottore che sta passando nei corridoi, vai a sentire se domani posso uscire e se sto meglio". Poi ha guardato mio nonno, gli ha sorriso, ed è morta.
Cosa si può ancora dire di una donna così? Che era straordinaria, mi sembra suoperfluo. Che mi manca, tanto, è scontato. Non è passato un solo giorno in questi undici anni in cui non abbia pensato a lei. Talvolta mi scopro ad aspettarla, come se fosse uscita e dovesse rientrare, oppure apparecchio la tavola anche per lei, se sono sovrappensiero.
Vorrei solo risentire la sua voce, perché non me la ricordo più.

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